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Wikileaks rivela un nuovo documento della Cia: "Ecco perché la lotta al terrorismo ha fallito"

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su espressonline, 18 dicembre 2014

(http://espresso.repubblica.it/internazionale/2014/12/18/news/wikileaks-rivela-documento-della-cia-ecco-perche-la-lotta-al-terrorismo-ha-fallito-1.192623)

«Fin dal 2001 la coalizione ha portato avanti un notevole sforzo per colpire i leader dei Talebani, ma la limitata influenza del governo al di fuori di Kabul ha impedito l'integrazione tra le operazioni per colpire obiettivi di alto valore e le altre tecniche di controguerriglia sia di tipo militare che non, come ad esempio i programmi di riconciliazione. La corruzione e la mancanza di unità del governo afghano, l'insufficienza delle forze Nato e afghane, e la caratteristica della nazione di essere, a livello endemico, un paese senza legge, hanno limitato l'efficacia di questi elementi di controguerriglia. L'uso da parte dei Talebani di alto rango di rifugi nel Pakistan ha anche complicato gli sforzi di colpire obiettivi di alto livello. Inoltre, i Talebani hanno un'alta capacità di rimpiazzare i leader colpiti, un comando centralizzato ma flessibile completato con strutture Pashtun di tipo egualitario, buoni programmi sia di successione al comando che di rimpiazzo delle forze, soprattutto nei ranghi di medio livello, secondo quanto risulta dai report clandestini e da quelli dell'esercito americano».

A mettere nero su bianco questa analisi di quanto poco incisive siano state le operazioni per colpire obiettivi di alto livello nelle fila dei Talebani è la stessa Cia. In un documento della Central Intelligence Agency del luglio 2009 e classificato “secret// noforn”, ovvero segreto e non rilasciabile a cittadini stranieri, che “l'Espresso” è in grado di rivelare grazie a WikiLeaks, che lo pubblica oggi in esclusiva con il nostro giornale e con un team di media internazionali, tra cui il quotidiano tedesco “Sueddeutsche Zeitung” e il "Washington Post".

Il file ha per titolo “Rendere le operazioni che mirano a colpire gli obiettivi di alto valore uno strumento efficace nella controguerriglia” ed è elaborato dalla divisione della Cia “Office of Transnational Issues” (Oti). Il documento fornisce un raro spaccato di come la Cia analizza le cosiddette “insurgency”: quei conflitti asimmetrici tra stati e guerriglieri, che insanguinano il mondo a tutte le latitudini: dall'Afghanistan all'America Latina, e che sono la spina nel fianco di tutte le potenze.

Nel documento segreto, la Cia analizza le “insurgency” più rilevanti: dai Talebani – che proprio in questi giorni sono tornati a precipitare il mondo nell'orrore con l'attacco alla scuola di Peshawar, in Pakistan, che ha fatto strage di oltre cento bambini innocenti – alle Farc, in Colombia. Da Hamas e Hezbollah ad al Qaeda in Iraq (Aqi), dalle Tigri Tamil in Sri Lanka a Sendero Luminoso in Perù. Non manca neppure l'analisi di casi storici, come la guerriglia per la liberazione dai francesi nell'Algeria negli anni '50, o anche quella contro l'Ira, negli anni 1969-1998, nell'Irlanda del Nord.

«Gran parte delle nostre fonti di informazioni» recita il documento segreto, «fa affidamento su report clandestini e sui rapporti degli addetti militari delle ambasciate, sulle discussioni con gli operativi delle missioni di targeting degli obiettivi di alto livello, su uno studio Cia di queste missioni e su una nostra revisione degli studi attuali e storici». Molti sono i report segreti citati nel file come base dell'analisi e non mancano neppure le cosiddette “open source”, documenti pubblici, come libri o articoli pubblicati dai reporter.

Lo scopo per la Cia non è solo quello di analizzare le “insurgency”, ma di individuare le “migliori pratiche” per rendere più efficaci possibili le operazioni che mirano a colpire i leader della guerriglia. Il documento arriva a presentare uno schema di quanto, a seconda delle varie insurgency, fattori come la leadership del gruppo guerrigliero, il livello di supporto popolare di cui gode, la visibilità o la capacità di curare la successione al leader, pesi o meno nel successo delle operazioni antiguerriglia. La cosa che più colpisce di questo documento è che la stessa Cia, nel luglio 2009, quando Obama si era insediato da soli sei mesi, arriva a concludere che le operazioni per colpire i leader talebani in Afghanistan, dal 2001 ad oggi (2009), hanno avuto un impatto “limitato”.

E la Cia scrive che « la struttura militare dei talebani, che mescola un sistema di comando dall'alto al basso con una struttura tribale afghana egualitaria che governa sulla base del consenso, ha reso il gruppo più capace di resistere agli attacchi contro membri di alto livello». Eppure proprio dal 2009, la guerra dei droni per colpire leader e esponenti di alto livello che militano nelle fila dei talebani e di al Qaeda ha avuto un'escalation senza precedenti. Se dal 2001 al 2009, queste operazioni di targeting non hanno avuto un grande impatto sulla guerriglia antitalebana, perché allora sono state intensificate?

Non sempre l'eliminazione fisica del leader è la soluzione migliore, secondo questa analisi della Cia. La cattura a volte è ancora più efficace, specie quando il gruppo guerrigliero si fonda su una leadership carismatica. «I governi possono usare variabili come la cultura o la probabilità di causare danni collaterali per valutare se l'effetto desiderato prodotto dalle operazioni di targeting può essere meglio ottenuto catturando i leader della guerriglia, usando operazioni psicologiche per marginalizzarli, oppure condurre attacchi militari. La cattura aiuta a demitizzare i leader nelle culture che hanno un forte ethos guerriero, secondo un esperto in controguerriglia, e la cattura può essere soluzione migliore in termini di valore degli interrogatori dei leader».

Come esempio in cui la cattura ha assestato un colpo decisivo al gruppo ribelle si cita Sendero Luminoso, in Perù, definito come fortemente centralizzato e basato sul culto della persona del fondatore, Abimael Guzman, cattura da cui, secondo la Cia, l'insurgency di Sendero Luminoso non si è più ripresa. E non sempre la stessa cattura è una soluzione, se il leader è non solo carismatico, ma anche capace di mantenere la sua influenza pure in prigione, «come ha fatto Nelson Mandela in Sud Africa».

Né i risultati migliori contro le insurgency si ottengono necessariamente prendendo di mira i leader. Nel caso di al Qaeda in Iraq, scrive la Cia, «i vertici esercitano il controllo strategico dell'organizzazione, ma delegano la pianificazione degli attacchi ai leader locali, permettendo così alle operazioni di andare avanti anche quando le posizioni di leadership sono vacanti, secondo i report clandestini e delle forze militari statunitensi. Eliminare gli individui che sono importanti per le attività fondamentali dell'organizzazione – come quelli che gestiscono la rete degli attentati con auto esplosive- ha avuto su al Qaeda in Iraq un effetto più tangibile che causare devastazione nei comandi di più alto livello».

Altra strategia vincente si può rivelare il “pruning” ovvero una sfrondatura della leadership di un movimento di guerriglia che permetta di neutralizzare il gruppo, eliminare i leader più radicali,e coltivare quelli più disposti a dirottare la lotta sul piano politico. Come esempio, la Cia cita il lavoro fatto dagli inglesi contro l'Ira, penetrando la guerriglia e proteggendo leader come Jerry Adams e Martin Mc Guinness, «mentre allo stesso tempo [gli inglesi ] consentivano che alcuni dei rivali [di Adams e Mc Guiness] fossero eliminati».

Dall'analisi di questi fallimenti e successi, la Cia ricava cinque di quelle che ritiene le “best practises” per far sì che l'operazione di targeting degli obiettivi di alto valore sia uno strumento utile contro la guerriglia: identificare con chiarezza gli scopi del targeting, basare le decisioni su una conoscenza del gruppo ribelle acquisita tramite l'infiltrazione o gli interrogatori dei fuoriusciti, integrare le operazioni di targeting con altre strategie di controguerriglia, proteggere i potenziali membri moderati del gruppo di guerriglieri, capitalizzare le divisioni all'interno della leadership. Senza dimenticare mai, però, che «a causa della natura psicologica dell'insurgency, le azioni di entrambe le parti [sia della guerriglia che del governo che la combatte] sono meno importanti di come gli eventi sono percepiti da gruppi di opinione chiave sia all'interno [di una certa nazione] che all'esterno».

Il controllo e la manipolazione dell'informazione, dunque, sono un fattore chiave, come possiamo anche constatare con la guerra al terrorismo, dove l'accesso all'informazione è strettamente controllato e blindato da una segretezza che, finora, è stata sfidata solo da WikiLeaks e da whistleblower come Chelsea Manning e Edward Snowden. Non è un caso che quando i documenti fatti filtrare da Manning e Snowden hanno iniziato ad essere pubblicati, i falchi americani abbiano iniziato a parlare di “terroristi hi tech” e di “infowar”, ovvero di guerriglia delle informazioni. Una nuova forma di insurgency, basata non su attacchi o bombe, ma sull'uscita di documenti segreti e un'insurgency che ha come campo di battaglia i media, l'informazione e l'opinione pubblica.

Il documento segreto della Cia che oggi rivela WikiLeaks è del 2009: pochi mesi prima dell'exploit dell'organizzazione di Julian Assange, finita nelle cronache mondiali a partire dall'aprile del 2010 con il video “Collateral Murder”. Non è esagerato scommettere che da quell'aprile in poi anche WikiLeaks sia finita nei report della Cia sulla controguerriglia. Anche se sulle mani, WikiLeaks, non ha neppure una goccia di sangue.