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Il giornalista premio Pulitzer James Risen: "Guerra al terrorismo, gli Usa buttano miliardi"

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su espressonline, 11 novembre 2014

(http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2014/11/11/news/il-giornalista-premio-pulitzer-james-risen-guerra-al-terrorismo-gli-usa-hanno-buttato-miliardi-per-niente-1.187452)

James Risen è il giornalista investigativo americano che, dieci anni prima di Edward Snowden, cercò di rivelare gli abusi della Nsa, ma che fu fermato dal suo stesso giornale: il New York Times, che nel 2004 insabbiò la storia per oltre un anno, su pressione della Casa Bianca. Un reporter che conosce la guerra al terrorismo come pochi.

Le sue rivelazioni sulla Nsa, che gli sono fruttate un premio Pulitzer, furono pubblicate solo nel 2005 sul New York Times e nel suo libro State of War, un'opera che è all'origine dei suoi guai, perché da ben sette anni Risen lotta contro il governo americano che vuole costringerlo a rivelare le sue fonti per quel libro e a testimoniare contro di esse.

Un'intimidazione che «ha un effetto agghiacciante sia sulle fonti che sui reporter», spiega a “l'Espresso” l'avvocato statunitense Jesselyn Radack, che fa parte del team legale di Edward Snowden e ha difeso alcuni dei whistleblower di più alto livello. Risen non solo non si è piegato alla pressione legale del governo e si è sempre detto disposto ad andare in prigione pur di difendere le sue fonti, ma ha scritto un nuovo libro, appena uscito negli Usa con il titolo Pay Any Price: Greed, Power, and Endless War, un potente lavoro di giornalismo investigativo che rivela come miliardi di dollari finiscano buttati senza alcun senso, senza alcun controllo e spesso nella totale impunità in quella che è ormai la guerra infinita al terrorismo.

Dai 20 miliardi di dollari, in gran parte in banconote da 100, spediti in Iraq senza alcuna supervisione -11 dei quali nessuno sa che fine abbiano fatto - ai milioni pagati a Dennis Montgomery, un personaggio che è riuscito a far credere alla Cia che al Qaeda trasmetteva i piani in codice per i futuri attacchi terroristici nelle trasmissioni di al Jazeera e ovviamente solo lui aveva in mano la tecnologia necessaria per decifrare i messaggi, fino agli affari di quelli che Risen chiama i “nuovi oligarchi dell'11 settembre”, gli uomini che guidano le aziende capaci di ottenere contratti miliardari per le più controverse operazioni antiterrorismo.

Come i Blue Brothers, i fratelli Neal e Linden Blue che guidano la “General Atomics”, «gli uomini che in ultima analisi fanno più profitti dalla guerra dei droni: dal Predator al Reaper». Nel 2012, racconta Risen, la General Atomics ha ricevuto contratti dal governo Usa per 1,8 miliardi di dollari, quando invece nel 2001 arrivava solo a 110 milioni. Con la guerra senza fine, spiega il reporter, gli americani più ricchi hanno scoperto che il modo più attraente di fare soldi è riuscire a imbucarsi nell'apparato della sicurezza nazionale di Washington, visto che Wall Street non è più un posto così allettante come lo era prima della crisi bancaria.

«Solo una piccola fetta della società americana - che include molti ragazzi poveri e delle zone rurali - va a combattere e muore, mentre l'élite permanente della sicurezza nazionale ruota tra posizioni di alto livello nel governo, contractors, think tank, commenti televisivi: tutte opportunità che sparirebbero se l'America fosse improvvisamente in pace. “L'Espresso” ha chiesto a James Risen di parlarci di questo e del suo nuovo libro.

Lei si occupa di guerra al terrorismo fin dall'11 settembre 2001 e nel suo libro scrive che una stima del 2010 ha concluso che dieci anni di guerra sono costati all'America circa 4 trilioni di dollari, ovvero 4mila miliardi di dollari. Crede che gli Stati Uniti potranno permettersi una spesa di questo livello nei prossimi dieci anni?

«E' un grande interrogativo. Non lo so: a un certo punto qualcuno porrà il problema, qualcuno nel Congresso, qualche nuovo presidente, ma in questo momento nessuno sembra disposto ad attaccare la guerra al terrorismo».

Crede che questa guerra al terrorismo andrà avanti per sempre?

«La guerra al terrorismo è, sostanzialmente, un'astrazione, come la guerra alla droga o alla povertà. Si combatte contro un'astrazione. E sta a noi definire gli obiettivi, i successi o i fallimenti della guerra al terrorismo. Non è una guerra tipica e di conseguenza c'è una costante ridefinizione del conflitto. E' veramente indefinito e andrà avanti fino a quando l'opinione pubblica americana non diventerà più scettica».

Che cosa può fermarla, ammesso che possa fermarla qualcosa?

«Ci sarà sempre una qualche forma di terrorismo, c'è sempre stato nel corso della storia. Una delle citazioni più interessanti che si trovano nel libro è quella di Brian Jenkins, esperto di terrorismo della RAND Corporation. Rand dice che nessuno se ne rende conto, ma il decennio dopo l'11 settembre è stato il più pacifico dagli anni '60, in termini di attacchi terroristici sul suolo degli Stati Uniti. Negli anni '60 e '70 avevamo gruppi di sinistra che piazzavano le bombe, negli anni '90 avevamo gruppi di estremisti di destra, ma non abbiamo permesso a questa gente di definire la nostra società nel modo in cui lo permettiamo ora».

Lei crede che qualche alleato degli USA, decisamente meno ricco degli Stati Uniti, cercherà di porre fine a questa guerra permanente, perché non può permettersi di continuare a spendere così tanto?

«Guardiamo alla Gran Bretagna: si è appena ritirata dall'Afghanistan. C'è molto meno supporto nel mondo a favore della continuazione di questa guerra, ma la vera domanda è: quando gli Stati Uniti decideranno davvero che dobbiamo cambiare il modo in cui affrontiamo il problema? Perché in questo momento abbiamo operazioni, attacchi con i droni, ma abbiamo fallito in molti dei paesi nell'affrontare i problemi che stanno alla base e che portano al terrorismo. Noi abbiamo ogni sorta di approccio tattico al terrorismo, ma nessun approccio più ampio e strategico».

Dopo Osama bin Laden e al Qaeda, ora risiamo daccapo con l'Isis. Lei come guarda all'Isis? Lo considera una grande minaccia esistenziale agli Stati Uniti o piuttosto una minaccia grandemente esagerata?

«Non credo che sia una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti o per i paesi europei, è essenzialmente un sintomo dello sfascio dell'Iraq. Di fatto, invece di rovesciare un dittatore, noi abbiamo rovesciato l'intera struttura sociale del Paese, trasformandolo in una nazione dominata dagli sciiti, dopo un secolo di dominazione sunnita e questo ha portato a una guerra civile tra sunniti e sciiti che è ancora in corso. Adesso abbiamo una situazione per cui i sunniti sono ancora profondamente alienati a causa del governo di Baghdad dominato dagli sciiti e gli estremisti sunniti traggono vantaggio da ciò. Fino a quando non si arriverà a una qualche soluzione politica, non credo che troveremo una soluzione al problema dell'Isis».

Nel suo libro, lei cita uno studio sulla guerra al terrorismo che ha concluso che la spesa per la guerra è così eccessiva che l'unico modo per cui potrebbe essere considerata efficiente in termini di costi-benefici sarebbe quello di riuscire a prevenire 1667 attacchi terroristici -ogni anno- del tipo di quello di Times Square nel 2010. Questo significa riuscire a fermare quattro attacchi al giorno. Eppure se guardiamo a quello che è accaduto negli ultimi 13 anni, vediamo che pur con tutto il loro potere e i loro soldi, la Cia e la Nsa non sono riuscite a prevedere l'attacco di Times Square, l'attentatore con l'esplosivo nelle mutande, l'attacco alla maratona di Boston e il devastante attacco al consolato Usa in Libia. Nessuno si è azzardato a mettere in questione questa lunga lista di fallimenti e questo spreco di soldi. Perché?

«Io credo perché in parte - e questa è la mia opinione - gli Stati Uniti buttano soldi in questi programmi senza pensarci: credono che la sorveglianza di massa o l'invasione di una nazione siano la risposta a questi problemi. Ma questi problemi in realtà sono molto circoscritti. Gran parte dei casi [di attacchi] che abbiamo avuto dopo l'11 settembre sono stati fatti dai cosiddetti lupi solitari, individui che si sono radicalizzati per quello che loro percepiscono come un eccessivo coinvolgimento degli Stati Uniti e del mondo occidentale nella politica del Medio Oriente e così decidono di agire. Queste sono situazioni che essenzialmente potrebbero essere affrontate con operazioni di polizia, anziché con l'apparato della sicurezza nazionale. Ed è su queste cose che abbiamo bisogno di un dibattito: c'è un modo in cui possiamo occuparci del terrorismo come un problema di ordine pubblico, come facevamo prima dell'11 settembre, e trattarlo meno come una minaccia esistenziale, come invece ora lo trattiamo?».

Il problema della guerra al terrorismo non è rappresentato solo dai costi, ma anche dal massiccio attacco alle libertà fondamentali e ai diritti umani. Guantanamo, l'uso dilagante della tortura, la possibilità di tenere in stato di detenzione i cittadini per un periodo indefinito o anche di ucciderli senza processo e senza che abbiano accesso a un avvocato. Misure straordinarie mai viste in una democrazia. Come è possibile che gli Stati Uniti non sappiano venir fuori da una situazione come questa?

«Credo che questa sia una grande domanda. E' un circolo vizioso: quando qualcosa accade, noi dobbiamo rispondere, ma se rispondiamo, la gente si radicalizza e ci attacca, e così dobbiamo rispondere di nuovo. Ancora non abbiamo imparato a uscirne e questa è la vera domanda: quando i cittadini americani decideranno di uscire una volta per tutte da questo circolo vizioso, non andare nel panico e non abbandonarsi alla paura? Fino a quando non riusciranno a uscire da questa mentalità del terrore non avremo una risposta, perché uno dei problemi degli Usa oggi è che qualunque politico che metta in questione la guerra al terrorismo è immediatamente bollato come “soft” con il terrorismo, e questa è la peggiore accusa che si possa fare a un politico. E così i politici non sono liberi di mettere in discussione nulla».

Lei crede che la democrazia americana si riprenderà mai?

«Lo spero. E' per questo che scritto il libro, perché voglio che gli americani riflettano su questi temi, voglio offrire queste informazioni in modo che ci sia un dibattito».

Lei scrive che la levatura morale degli Stati Uniti è stata gravemente danneggiata dalla dipendenza dalla guerra dei droni dell'amministrazione Obama. Perché Obama è così dipendente dai droni?

«Credo che abbia continuato a vederli come un'alternativa poco costosa all'invasione militare di una nazione, ha confrontato gli attacchi con i droni all'invasione dell'Iraq di Bush, dicendo: questo è un modo di condurre le operazioni di basso profilo, che non richiede di inviare le truppe, basta mandare i droni ad ammazzare. Ma dal punto di vista morale è davvero una brutta china: una volta che si inizia a usare i droni, si accetta un certo livello di perdite civili e bisogna capire che i droni sono un'arma imperiale, dove nessun americano rischia qualcosa, ma contro di noi c'è un forte risentimento nei paesi che attacchiamo con tecnologie remote».

Lei si aspettava questo da Obama?

«No, e questa è una delle cose che dico nel libro: una delle eredità della sua presidenza sarà quella che Obama ha normalizzato e reso permanente la guerra al terrore, estendendo gran parte dell'approccio di Bush all'apparato della sicurezza nazionale, che è cresciuto dopo l'11 settembre. Credo che uno degli aspetti più sorprendenti della sua presidenza sia il livello di continuazione delle politiche di Bush nella guerra al terrore».

Una delle principali ragioni per cui questa guerra al terrore non viene sfidata da nessuno è l'assoluta segretezza da cui è circondata...

«Sì, è davvero la prima guerra della storia americana che è completamente segretata, e praticamente le sole cose che sappiamo sono quelle riportate dalla stampa, televisione e libri. Il governo ha volutamente rilasciato pochissima informazione e così è davvero difficile per i reporter trovare più informazioni. Tutto è segreto e i whistleblower vengono puniti. E' veramente una realtà molto difficile».

Come guarda alla guerra al segreto scatenata da WikiLeaks?

«WikiLeaks, Manning, Snowden hanno svolto il ruolo di whistleblower e io credo che sia un pubblico servizio far in modo che esca più informazione, perché come ho detto i canali non ufficiali sono l'unico modo per fare uscire informazioni su questa guerra al terrorismo».

E tutti loro - WikiLeaks, Chelsea Manning, Edward Snowden - pagano un prezzo enorme..

«Sì, perché gli Stati Uniti stanno cercando di sopprimere la verità, per questo danno un giro di vite contro i whistleblower».

Nel suo libro racconta come il suo grande scoop sul programma di intercettazione della Nsa fu bloccato due volte dal New York Times, allora guidato da Bill Keller. Può dirci di più di questa storia?

«Ho raccontato più volte come hanno bloccato questa storia prima delle elezioni e poi anche dopo. Decisi di raccontarla nel mio libro “State of War” e prima che il libro uscisse parlai con il mio direttore, dicendo che la storia sarebbe comunque stata pubblicata, alla fine la fecero uscire due settimane prima del libro»

Quindi praticamente lei obbligò il New York Times a pubblicare quello scoop, pubblicandolo comunque nel suo libro...

«Sì, e alla fine è andata, ma è stato il periodo più traumatico della mia vita, assolutamente intenso».

Le bloccarono anche altre grandi storie?

«Sì, una storia che racconto nel libro [“State of War”] sull'Iran e la Cia, e un certo numero di altre storie furono bloccate, insabbiate e tagliate durante il periodo successivo all'11 settembre, soprattutto il periodo precedente alla guerra in Iraq, come la storia in cui alcuni criticavano le informazioni di intelligence che hanno portato alla guerra».

Mentre si può capire facilmente che gli attacchi dell'11 settembre scatenarono una fortissima reazione, è difficile capire perché la stampa abbia continuato a supportare il governo americano su questioni come la tortura o la guerra in Iraq. Che è successo alla stampa?

«I due anni che seguirono l'11 settembre furono un periodo estremamente intenso. Bisogna ricordare che, tra l'attacco dell'11 settembre e l'invasione dell'Iraq sono passati solo 18 mesi. Come reporter, passammo dallo scrivere su al Qaeda al raccontare che l'amministrazione Bush stava per invadere l'Iraq: era veramente difficile controllare tutto e credo che la stampa fosse troppo deferente verso il governo in quel periodo. Non è stato il nostro momento migliore».

Crede che nel frattempo le cose siano cambiate?

«Sì, io conosco in modo particolare la situazione del New York Times e so che oggi le cose vanno molto meglio. Sono molto più scettici sul governo».

Lei ha passato gli ultimi sette anni a combattere contro il governo americano che vuole costringerla a rivelare le fonti per il suo libro “State of War”. Crede ancora nella possibilità di fare giornalismo aggressivo in un'era di sorveglianza di massa?

«Sì, per questo ho scritto il mio nuovo libro: è la mia risposta al governo. Voglio continuare a scrivere, a indagare. E' l'unica risposta che il governo rispetterà ed è una cosa che continuo a dire agli altri reporter: continuate a provare, indagare, mantenevi aggressivi. E' l'unica risposta che possiamo dare al governo a questo punto».