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Libia, parla l'inviato delle Nazioni Unite :"Romano Prodi può dare una mano"

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su L'ESPRESSO e su espressonline, 25 febbraio 2015

(http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/02/25/news/libia-parla-l-inviato-delle-nazioni-unite-romano-prodi-puo-dare-una-mano-1.201184)

Un paese disintegrato, con due “governi” rivali, uno a Tobruk e l’altro a Tripoli, milizie di ogni tipo e con i tagliateste dell’Is che avanzano. Salvare la Libia dalla dissoluzione finale e dall’esplosione della violenza fuori controllo pare una “mission impossible”.

A cercare di portare avanti con determinazione un dialogo politico tra le parti - che praticamente ogni settimana viene dato per morto - sono le Nazioni Unite, che in Libia hanno inviato il diplomatico spagnolo Bernardino Leon. Ex collaboratore del leader José Luis Rodriguez Zapatero, Leon esce dai cablo di WikiLeaks come un talento della diplomazia. «Dimostra un’impressionante capacità di assimilare incredibili quantità di informazioni su tutta una varietà di questioni, di sapere collegare i fatti e presentarli in modo profondo, cogente e persuasivo», scriveva nel 2009 la diplomazia americana, comunicando a Washington come l’ambasciatore Usa a Madrid comparasse le sue capacità «a una versione umana di Google». Oggi, Bernardino Leon di questi talenti ha tutto il bisogno possibile, vista la difficilissima missione. E in questa intervista esclusiva con “l’Espresso” spiega la sua strategia.

Mister Leon, come è la situazione sul campo?

«È veramente sull’orlo del collasso. Tutti sappiamo degli attacchi terroristici nel Paese, mentre si parla poco della situazione finanziaria, che è altrettanto preoccupante. Non sono sicuro che, dal punto di vista economico, la Libia possa resistere più di qualche settimana. A questo si va ad aggiungere un quadro politico difficile. Mettendo tutto insieme, ne esce una nazione sull’orlo del baratro, che ha assolutamente bisogno di un accordo per un governo di unità nazionale, che non risolverà ogni problema immediatamente perché le sfide sono enormi, ma almeno arresterà il deterioramento della situazione e inizierà a cambiare la direzione delle cose».

Come sta gestendo lo sforzo diplomatico?

«Stiamo cercando di avere una trattativa che coinvolga tutte le parti disposte a sostenere un accordo, non escludiamo nessuno se non i terroristi e le organizzazioni estremiste, cercando di coinvolgere protagonisti libici ed internazionali. Non è facile, ma credo che per il momento ci siano poche alternative e cercheremo di esaurire ogni possibilità che abbiamo».

Da quello che lei percepisce, i libici si fidano delle Nazioni Unite?

«La Libia è un Paese complicato, perché ci sono tanti personaggi che sono contro un accordo e fanno del loro meglio per minare le trattative, ma, detto questo, ciò che è veramente importante non è tanto se i libici si fidano delle Nazioni Unite, quanto piuttosto se le Nazioni Unite sono in grado di portare fiducia tra le parti. I due Consigli devono costruire insieme un progetto, una società, e questo può essere fatto solo se sono capaci di lavorare insieme, se si fidano uno dell’altro, quindi noi stiamo investendo molto su misure che mirino a costruire la fiducia reciproca».

Quanto è forte oggi lo Stato islamico in Libia?

«Nelle ultime settimane l’Is è passato dall’essere una piccola organizzazione presente solo a Derna ad una con mezzi e presenza sia nei territori centrali, che occidentali e meridionali del Paese, non è più presente solo a est. E direi che nelle ultime due settimane c’è stato anche un salto qualitativo: non vediamo più in azione piccoli commandi terroristici, ma gruppi che possono contare su molte più forze e che sono organizzati militarmente. Questa è un’altra importante ragione per cui dobbiamo arrivare a un accordo: dobbiamo dare al nuovo governo della Libia e alla comunità internazionale l’opportunità di lavorare insieme. Ritengo la minaccia dell’Is ancora gestibile, ma se le lotte interne continuano, diventerà difficile fermarne la crescita. Non c’è dubbio che l’Is punti ad avere un’importante roccaforte in Libia, per operare da qui sull’intera regione».

C’è la preoccupazione che la diplomazia possa fallire, che ne pensa di un intervento militare? Ed, eventualmente, che tipo di intervento?

«Preferisco continuare a lavorare per la diplomazia e non dichiarare questa missione come impossibile. Se dovesse fallire, credo che Paesi diversi farebbero proposte diverse: si tratterebbe di andare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e vedere che tipo di risposta viene dal Consiglio. Alcuni Paesi propongono di rafforzare la capacità dei libici di combattere il terrorismo, altri propongono diverse missioni di stabilizzazione, ma per il momento lavoriamo per un accordo che porti a un governo di unità».

Chi sono i leader politici libici con cui l’Europa dovrebbe dialogare?

«L’Europa dovrebbe stabilire un contatto con i protagonisti chiave a Tobruk, Misurata, Tripoli. Ce ne sono molti e tutti sono interlocutori validi, ma poi dobbiamo anche coinvolgere le milizie, ricordare che i partiti possono giocare un ruolo importante, così come i leader tribali. E quindi, data la complessità della situazione, noi abbiamo scelto un processo politico con tanti interlocutori, ed è importante che l’Europa e la comunità internazionale stabiliscano un contatto con loro e li incoraggino ad andare avanti. Le milizie, per esempio, devono pensare di essere parte della soluzione, perché è vero che molti dei problemi sono originati dagli scontri tra le milizie, però dobbiamo contare su di loro non solo per superare la crisi politica e di sicurezza, ma anche per costruire uno Stato: il loro contributo è importante, perché non si può costruire uno Stato se non si costruisce un esercito unito e istituzioni solide, come il ministero dell’Interno e la polizia, in modo da portare il Paese fuori dal caos».

Che ruolo vede per l’Italia in Libia?

«L’Italia è un protagonista chiave di questo processo. Sono in contatto continuo con il ministro Gentiloni e l’Italia ha fornito supporto politico e logistico, senza cui la missione Onu non sarebbe possibile».

Il primo ministro, Matteo Renzi, ha dichiarato che l’Italia sarebbe in grado di gestire la crisi, sia perché abbiamo ottima intelligence sulla Libia, sia perché siamo in grado di gestire la diplomazia e il peacekeeping. Ma la situazione libica richiede il peacekeeping o piuttosto il “counter-terrorism”, ovvero quella lotta al terrorismo che, dall’Afghanistan all’Iraq, sappiamo quanto sia problematica?

«È un problema con molte facce. C’è ovviamente un aspetto importante che è il peacekeeping, perché se riusciamo ad arrivare a un accordo, poi avremo bisogno di mantenere la stabilità del Paese e per questa missione il peacekeeping è di vitale importanza. C’è anche, naturalmente, il “counter-terrorism”, che è altrettanto importante: e quindi, intelligence, cooperazione. Ma c’è di più: la sfida è costruire lo Stato, perché Gheddafi non si è mai curato del problema. Vanno controllate le frontiere, messe in piedi le istituzioni, la giustizia. Dovremmo supportare la Libia per anni, in futuro».

L’Italia sta pensando di coinvolgere la Russia nelle trattative diplomatiche sulla Libia. Che ne pensa?

«Sono in contatto costante con il ministero degli Esteri russo, in Libia hanno esperienza e oggi vantano una presenza nella regione che rende il supporto russo molto importante».

Si è parlato anche del coinvolgimento come mediatore di Romano Prodi. Che ruolo potrebbe giocare?

«Chiunque può dare una mano è il benvenuto. Allo stesso tempo, ritengo che la situazione sia estremamente instabile e che la Primavera araba abbia cambiato molti dei protagonisti che operano sul campo, in Libia. Quindi non sono sicuro che l’esperienza del passato sia ancora utile oggi. Ma, detto questo, Prodi è un politico che in passato ha giocato un ruolo importante nell’area mediterranea e in Europa, e sono sicuro che potrebbe avere un ruolo molto positivo, quindi ogni appoggio a quello che le Nazioni Unite stanno facendo sarebbe più che gradito».