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'Citizenfour', un Oscar al documentario su Edward Snowden e il caso Nsa

Di Stefania Maurizi

pubblicato su espressonline, 23 febbraio 2015

Che il premio più ambito fosse nell'aria si sapeva, ma ora le foto di Laura Poitras sul palco degli Oscar, con la grande documentarista che lascia stringere la statuetta al collega Glenn Greenwald, restituiscono il ritratto di quello che è uno dei più grandi scoop della storia del giornalismo.

“Citizenfour”, il film sulla straordinaria storia di come Edward Snowden sia riuscito far uscire decine di migliaia di file top secret sulla più grande, la più potente agenzia di intelligence del mondo, la Nsa, ha vinto il Premio Oscar 2015 come migliore film documentario.

A ritirare il premio stanotte, c'erano una Poitras, low profile come sempre e Glenn Greenwald – i due giornalisti a cui Snowden ha consegnato l'intero database di file - ma anche la fidanzata di Snowden, Lindsey Mills, che lo ha raggiunto a Mosca, riportando almeno un soffio di normalità in una vita come quella di Edward Snowden, stravolta dalla scelta di esporre gli abusi della più potente organizzazione di intelligence del mondo, quella che non dà scampo, non lascia un posto in cui nascondersi. No place to hide, come ha titolato, giustamente, il suo libro Glenn Greenwald.

L'ex contractor americano non ha potuto ovviamente essere presente sul palco degli Oscar: è bloccato in Russia, dove gode di un permesso di residenza temporaneo di soli tre anni, dopo che l'intera Europa gli ha rifiutato quell'asilo politico e quella protezione che aveva chiesto a ogni singolo stato europeo.

Nel film di Poitras c'è una stralcio di filmato esclusivo girato da WikiLeaks che testimonia il febbrile lavoro dell'organizzazione di Julian Assange per salvare la vita a Snowden, dopo che si è ritrovato solo e abbandonato a Hong Kong. E non è un'esagerazione dire che se oggi Snowden non è finito, nel migliore dei casi, in una prigione americana di massima sicurezza, è solo grazie a WikiLeaks e alla giornalista dell'organizzazione di Assange, Sarah Harrison, che l'ha materialmente prelevato da Hong Kong alla ricerca disperata di asilo. Greenwald stesso l'ha riconosciuto, definendo Harrison: «un grande modello di coraggio basato sulla forza dei principi, senza la quale Snowden sarebbe molto probabilmente in gabbia negli Usa».

L'Oscar al film di Laura Poitras contribuirà indubbiamente all'accettazione sociale della scelta di Snowden di “tradire la sua azienda”, come hanno accusato i suoi detrattori, e di rivelarne gli orwelliani programmi di sorveglianza di massa, ma Snowden rimane comunque in Russia, Chelsea Manning, che invece ha rivelato gli orrori della guerra in Afghanistan e in Iraq, passando i file segreti a WikiLeaks, rimane in prigione negli Usa, condannata a scontare 35 anni di pena, Julian Assange resta confinato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, mentre Sarah Harrison è in esilio a Berlino: è bene che rimanga lontano dal suo paese, l'Inghilterra, perché secondo i suoi legali rischia di essere arrestata e accusata di terrorismo, per avere aiutato Snowden.

Lontano dal red carpet, insomma, la battaglia dei whistleblower è lontana dall'essere vinta. E c'è solo da sperare che i bagliori dell'Oscar e dei Pulitzer diano una mano. Anche se è amaro constatare che non un solo riconoscimento pubblico, non un solo “thank you”, detto da qualche prestigiosa accademia del giornalismo, è andato a quell'unica organizzazione che ha ben descritto lo stesso Snowden: «Tutti i media del mondo volevano mettere le mani sulla storia [dei file Nsa, ndr]. Una sola organizzazione giornalistica aveva detto: vogliamo aiutare la fonte. E quell'organizzazione era WikiLeaks».