Glenn Greenwald, così ho sfidato lo spionaggio
Di Stefania Maurizi
Pubblicato su espressonline e repubblicait, 26 maggio 2015
(http://espresso.repubblica.it/internazionale/2014/05/26/news/la-sfida-allo-spionaggio-di-glenn-greenwald-1.166956)
Non ci sono dubbi sul fatto che i servizi segreti italiani abbiano una collaborazione con la Nsa e se il governo di Roma lo nega, allora vuol dire che mente. Ma bisogna anche riconoscere che la National security agency non vede l'Italia come uno dei suoi principali alleati nelle operazioni di sorveglianza di massa e considera il vostro Paese come un bersaglio della sua attività di intelligence». Glenn Greenwald ormai è un'icona del giornalismo indipendente: è a lui che Edward Snowden si è rivolto quando ha deciso di svelare al mondo i segreti della più grande agenzia di spionaggio delle comunicazioni. Uno scoop senza precedenti: la rete planetaria costruita dagli Usa per vigilare su tutte le telefonate, le email e gli scambi informatici del pianeta è stata messa a nudo, mettendo in crisi non solo l'intelligence americana ma lo stesso concetto di privacy.
A un anno esatto da quel contatto misterioso che ha innescato le più potenti rivelazioni della storia contemporanea, Greenwald ha scritto un libro. È un racconto che intreccia la sua avventura personale con le rivelazioni dei file di Snowden: “Sotto controllo”, edito in Italia dalla Rizzoli (373 pagine, 15 euro). Sulla copertina del volume, che Greenwald ha presentato a Milano discutendone in esclusiva con il nostro giornale, è rimasto anche il titolo originale: “No place to hide”, non c'è un posto dove nascondersi. La sintesi di come è cambiata la sua vita e quella di Snowden dopo la sfida al più grande sistema di spionaggio mai costruito.
«Quando ho visto quanti documenti aveva Snowden e quanto erano scottanti, mi sono immediatamente reso conto che i rischi sarebbero stati altrettanto alti. Sapevo che avrei dovuto essere molto aggressivo nel mio lavoro giornalistico e ho capito anche che sarei stato attaccato e minacciato in molti modi. Ancora prima dell'uscita delle rivelazioni c'era moltissima tensione a Hong Kong, dove Snowden si era rifugiato: eravano in tre, in un hotel, senza alcuna forma di protezione. Non avevamo idea di cosa il governo americano sapesse, cosa conoscessero le autorità di Hong Kong e in un certo senso ci aspettavamo che qualcuno potesse bussare da un momento all'altro alla porta. I files che aveva erano documenti su cui qualsiasi agenzia di intelligence del mondo avrebbe voluto mettere le mani”.
Navigavate in acque inesplorate: un'esperienza giornalistica del tutto nuova...
«Esatto. Una delle ragioni per cui ho fatto pressione per uscire presto con la prima tranche di rivelazioni è che ero convinto che la migliore protezione fosse l'interesse del pubblico che i documenti avrebbero sollevato, il clamore mediatico e l'attenzione dei cittadini avrebbero reso impossibile per il governo fare qualcosa contro di noi. I pericoli più seri li abbiamo corsi durante gli incontri iniziali, quando ci siamo visti di nascosto, prima della pubblicazione. E sicuramente abbiamo fatto errori perché non ci sono manuali che ti insegnano come gestire una situazione del genere. Avevamo dei modelli, come quello di WikiLeaks, su come si pubblicano documenti segreti in molte nazioni, come si proteggono i files, ma questa storia avevano anche delle caratteristiche uniche, senza precedenti».
Attualmente vive sotto una qualche forma di protezione?
«Il senato brasiliano ha votato per affidare alla polizia la protezione della mia casa e abbiamo preso alcune ragionevoli misure di sicurezza, ma quello che ho capito fin dall'inizio è che se qualcuno vuole davvero fare qualcosa contro di te, non ci sono difese al mondo salvo avere un intero esercito come quello che protegge Obama. Se vuoi cercare di condurre un'esistenza normale, sarai comunque vulnerabile. Non solo: è importante non essere così preoccupati per la sicurezza, sia per evitare la paranoia, che per evitare che la paura ostacoli seriamente il lavoro giornalistico. E così, all'inizio, il mio compagno, io, Laura Poitras e in un certo senso Edward Snowden abbiano parlato di alcune misure di sicurezza, e una volta messe in atto, non ci ho più pensato».
Grazie a Snowden abbiamo un dibattito mondiale sulla sorveglianza di massa. Come replica a coloro che sostengono che la Nsa non fa altro che quello che fanno le agenzie di intelligence cinesi e russe?
«Non c'è dubbio che Russia e Cina spiino. Tutti i governi lo fanno, ma la questione importante è in quale misura lo fanno e con quali finalità. E anche se tutti i governi spiano, nessuno si avvicina anche lontanamente ai livelli toccati dagli Stati Uniti, che veramente vogliono trasformare Internet in qualcosa in grado di controllare completamente, raccogliendo e immagazzinando tutto, eliminando letteralmente la privacy per tutti in Rete. A differenza dello spionaggio mirato contro obiettivi militari, agenzie di intelligence, leader politici, aziende, come fanno i cinesi e in una misura minore i russi, gli Stati Uniti vogliono avere uno spionaggio indiscriminato, illimitato. Basta vedere le dimensioni della Nsa: 30mila dipendenti, più 50-60mila lavoratori esterni. Nessuno in nessuna parte del mondo ha una simile armata di persone che lavorano alla sorveglianza. E secondo me il discorso della minaccia dei russi e dei cinesi invece è una delle ragioni per cui gli Stati Uniti non dovrebbero minare i protocolli di sicurezza che ci proteggono sulla Rete. Oggi la Nsa spende 75 miliardi di dollari all'anno, la maggior parte dei quali per indebolire le misure che ci garantiscono la privacy su Internet o per distruggerle del tutto, mentre si potrebbe spendere una piccolissima frazione di quel denaro per rafforzarle, in modo da proteggere le comunicazioni delle popolazioni, delle aziende. A quel punto cinesi e russi potrebbero cercare di spiare quanto vogliono, ma con le giuste misure di protezione, sarebbe per loro molto più difficile comprometterne la sicurezza. È questa, secondo me, la reazione giusta allo spionaggio di Russia e Cina, non quella di indebolire tutto».
Lavorando con lei ai file di Snowden, Espresso e Repubblica hanno rivelato le attività della Nsa a danno dell'Italia, in particolare lo spionaggio ai danni della nostra ambasciata a Washington e la raccolta dei metadati relativi alle informazioni su 46 milioni di telefonate. Nonostante queste rivelazioni, il governo italiano nega questi fatti e nega qualsiasi collaborazione con la Nsa. Lei come replica?
«I documenti rendono chiaro al cento per cento e innegabile che la Nsa considera l'Italia un partner "Tier B". I partner “Tier A” sono i “Five Eyes”, i paesi anglofoni, Australia, Canada, Inghilterra, Nuova Zelanda, che sono partner degli Stati Uniti in ogni forma di spionaggio elettronico, e rarissimamente gli Usa spiano questi paesi. I partner Tier B, come l'Italia, collaborano nello spionaggio solo per compiti estremamente limitati e circoscritti, per esempio si può immaginare che lavorino insieme per controllare le comunicazioni in Afghanistan, o quelle di certe nazioni e determinati individui. Ma allo stesso tempo l'Italia e questi paesi sono un bersaglio per lo spionaggio da parte degli Stati Uniti. In particolare i documenti precisano che gli Usa guardano i partner "Tier B" in primo luogo come nazioni da spiare e solo in secondo luogo come Paesi con cui collaborare a operazioni di intelligence. Tutto questo è certo».
Molti non credono che la raccolta di massa di metadati (l'insieme dei dati che identificano chi chiamiamo al telefono e chi contattiamo via email o sms) sia un problema. Tendono a liquidare a questione, dicendo: sono semplici dati telefonici, nessuno registra il contenuto. Eppure l'ex capo della Nsa, Michael Hayden ha dichiarato recentemente: «Noi uccidiamo utilizzando i metadati». Hayden si riferiva al fatto che grazie a queste informazioni gli Stati Uniti localizzano i presunti terroristi che eliminano con i droni. Cosa risponde a chi minimizza l'incidenza dei metadati sulla privacy?
«A chiunque pensa che la raccolta dei metadati non sia un problema vorrei chiedere una cosa: di mandarmi la lista di tutte le persone che chiama ogni giorno, la lista di quelle da cui riceve chiamate, scrive e risponde via email. Non ho bisogno di alcun contenuto delle conversazioni. Se ho la lista per ogni giornata, sono in grado di capire le cose più intime della vita di quella persona. Se chiama una clinica per gli aborti, un medico specializzato nella cura dell'Aids, un centro per il trattamento delle tossicodipendenze, un servizio per il supporto psicologico, o se è un whistleblower che vuole contattare un giornalista o un attivista per i diritti umani, se contatta un avvocato specializzato in certe questioni, ecco, sapere chiunque chiama quella persona, senza sapere cosa discute al telefono o via email, permette di rivelare informazioni molto invasive sulla vita di una persona. Si possono scoprire molte più cose guardando dall'alto i comportamenti di una persona, attraverso i metadati, che ascoltando le telefonate, perché è la ragnatela di interazioni che dipinge un quadro della vita di un individuo. E quelli che liquidano i metadati come un problema non rilevante, di norma, vengono smascherati proprio chiedendo loro di consegnarci i loro metadati».
Se guardiamo ai file di Snowden, emerge che ci sono anche ragioni per essere ottimisti: la Nsa non riesce a penetrare le comunicazioni protette con la crittografia forte e non riesce a penetrare la rete Tor. Lei crede che stiamo andando verso una società dove solo pochissime persone che hanno capacità di alto livello nel proteggere le proprie comunicazioni, saranno davvero uomini liberi?
«E' una domanda veramente importante: ora che la gente è consapevole del livello di sorveglianza messo in atto dalla Nsa, l'obiettivo più importante è incoraggiare più persone possibile a usare la crittografia e il problema è, come diceva lei, che la crittografia non è facile da usare, se non si è esperti o non si può contare su qualcuno che sappia usarla».
Qualcuno da cui poi ci si trova a dipendere assolutamente per mettere in sicurezza le proprie comunicazioni...
«Ma quello che sta succedendo è che gente di tutto il mondo ora vuole usare la crittografia per proteggersi, e così quello di cui abbiamo davvero bisogno è che queste tecnologie siano accessibili e facili da usare per tutti, senza dover ricorrere a esperti. Se invece di decine di migliaia di persone, saranno decine di milioni a usare questi sistemi criptati, allora la Nsa incontrerà seri ostacoli nello spiare tutti, perché diventerà un'attività estremamente costosa e che richiede molto tempo. E questa è assolutamente la chiave».
Cosa crede che stiano pianificando alla Nsa per uscire da questo scandalo? Secondo lei, aspettano semplicemente che sparisca dallo schermo del radar dell'opinione pubblica?
«La tecnica che usa ogni volta il governo americano quando finisce in una bufera è sempre la stessa: fingere di fare riforme che siano insignificanti e che siano semplicemente finalizzate a proteggere il sistema in modo che vada avanti. Lo stesso Obama è un perfetto esempio di questa tecnica: (prima della sua elezione ndr) gli Stati Uniti erano arrivati a un punto in cui erano visti dallo stesso popolo americano e da tutto il mondo così aggressivi, militaristi e corrotti che c'era bisogno di qualche simbolo che incarnasse le riforme, il cambiamento. Obama ha rimpiazzato Bush e la gente ora pensa che le cose siano migliorate, ma la realtà è che le cose sono andate avanti come prima e addirittura con maggiore forza, perché ora non sono solo i repubblicani a sostenere certe misure, ma anche i democratici. Quello che ora faranno sarà di varare qualche legge che promuovono come riforma. Credo che il compito dei giornalisti sia proprio quello di chiarire che quasi nulla è cambiato e di continuare a fare pressione. Credo che le aziende di tecnologia americane siano seriamente preoccupate per l'impatto di questo scandalo sul loro business, perché per quale ragione la gente dovrebbe comperare tecnologia da loro quando ci sono tante aziende in Germania, Brasile, Asia che dicono: non affidate i vostri dati alla Nsa, affidatevi a noi. Altre nazioni stanno cercando di evitare il dominio americano sulla Rete e a livello individuale la gente comincia a scegliere la crittografia. Sta ai giornalisti fare in modo che la tattica del governo americano non funzioni».
Lei si sente personalmente sotto pressione per il fatto di essere in grado di far cambiare qualcosa in seguito a questo scandalo?
«Avverto la pressione nel senso che mi sento in dovere di pubblicare queste rivelazioni in modo che il dibattito vada avanti in modo informato, ma non mi sento responsabile personalmente per il fatto che si arrivi a delle riforme: quella è una responsabilità di tutti, condivisa, tra giornalisti e gruppi per la difesa della privacy».
Parliamo di Snowden, crede che la Nsa smetterà mai di dargli la caccia?
«No, non credo, forse tra dieci o venti anni si occuperanno di altro, ma non credo che permetteranno mai a Snowden di tornare negli Usa, senza spedirlo in prigione per un lunghissimo periodo di tempo. E questo perché il governo americano è una macchina così grande e che dipende così tanto da un'enorme massa di informazioni digitali, che non c'è modo di prevenire un'altra fuga micidiale di documenti segreti. L'unico modo che hanno di prevenire una fuga di file simile a quella che abbiamo avuto con Chelsea Manning (il militare condannato per avere fornito a WikiLeaks l'archivio della diplomazia Usa ndr) e con Snowden è creare un clima di paura così forte da mandare un messaggio del tipo: se fai una cosa del genere, la tua vita sarà completamente distrutta. È per questo che sono stati così aggressivi con Chelsea Manning, che hanno torturato, così aggressivi nel perseguire WikiLeaks, e perché non potranno mai permettere a Edward Snowden di tornare negli Usa, senza che finisca in prigione. Sono mortalmente terrorizzati del pericolo che altre persone possano ispirarsi a questi esempi».
Ma in un certo senso è una battaglia già persa: dopo Chelsea Manning, e dopo il trattamento durissimo che le hanno riservato, è uscito comunque fuori un Edward Snowden. Il deterrente non ha funzionato.
«È vero. E prima di Chelsea Manning, hanno cercato di distruggere Thomas Drake (l'autore delle prime rivelazioni sulla Nsa ndr). Ma dopo Drake, c'è stata Manning e poi Snowden”.
Che cosa le racconta Snowden della sua attuale vita in Russia?
«Ero in Russia da lui qualche giorno fa: in generale sta molto bene, è lo stesso Edward Snowden che ho incontrato un anno fa a Hong Kong. Essere in un paese che non ha scelto, essere separato dalla sua famiglia è un'esperienza stressante e sono sicuro che lo sia anche per lui. Ma allo stesso tempo ha una pace interiore che gli deriva dalla scelta che ha fatto che gli conferisce una serenità profonda. Mi ha detto che è libero di girare per Mosca, perché il suo aspetto è un po' cambiato, quasi un ragazzo nella folla di Mosca».
Gira liberamente perché è camuffato in modo da passare inosservato?
«Non si camuffa, dall'intervista con la Nbc si vede che il suo aspetto è un po' cambiato, mentre quando l'abbiamo incontrato a Hong Kong è rimasto tre settimane chiuso in camera, ed era pallidissimo, ora ha un aspetto più salutare, cammina, va per negozi, non voglio dire che vive una vita completamente normale, ma molto più ordinaria di quanto non si pensi».
È un dato di fatto che se Snowden è vivo e libero è perché ci sono stati paesi che hanno saputo dire no agli Stati Uniti, a cominciare da Hong Kong, Russia, Venezuela, Nicaragua, Bolivia, Ecuador. Lei come replica a chi dice che Snowden non avrebbe dovuto chiedere aiuto a questi paesi, ma sarebbe dovuto tornare negli Usa e combattere la sua battaglia legale dagli States anche a costo di venire rinchiuso in una prigione di massima sicurezza?
«Posso garantirle che il 99.9 percento delle persone che dicono questo non accetterebbero mai di andare in una prigione di massima sicurezza negli Usa, se si fossero trovati in una situazione analoga. La cosa importante da capire è che la giustizia negli Stati Uniti è profondamente cambiata dopo l'11 settembre: chi è accusato di aver commesso crimini contro la sicurezza nazionale non può più contare su un processo veramente giusto, è quasi una garanzia che finirà condannato. Chi viene incriminato (come Snowden e Manning, ndr) sulla base dell'Espionage Act, non ha il diritto di appellarsi al fatto che ha rivelato certe informazioni perché l'opinione pubblica ha il diritto di conoscerle. E quindi la possibilità di avere un processo giusto non esiste. Perché avrebbe dovuto sottomettersi a un sistema di giustizia così ingiusto e a una prigionia così dura? È un'argomentazione idiota. E che il mondo possa vederlo libero, capace di contribuire al dibattito, è veramente importante per altri whistleblower che volessero seguire il suo esempio».
Hong Kong ha resistito alle pressioni Usa, la Russia ha resistito, ma la terra della libertà e dei diritti umani, l'Europa, ha completamente abbandonato a se stesso Snowden. Si aspettava questa risposta?
«Sì. Una delle cose che mi sorprende è quanta poca dignità i leader di questi paesi europei hanno. Sono completamente sottomessi e arrendevoli alle volontà degli Stati Uniti».
E' importante sottolineare il ruolo di WikiLeaks nel salvare Snowden. Senza la giornalista di WikiLeaks Sarah Harrison, che ha prelevato Snowden da Hong Kong, lo ha accompagnato nel suo volo alla ricerca di asilo, è rimasta con lui 39 giorni nell'aeroporto di Mosca e quattro mesi a Mosca con lui, Snowden non sarebbe libero. Il “Guardian” e il “Washington” Post hanno vinto il più importante premio giornalistico per il loro lavoro sui file di Snowden, non crede che anche WikiLeaks dovrebbe ricevere qualche riconoscimento pubblico per quello che ha fatto nel proteggere la fonte?
«Assolutamente, sono stati cruciali nell'impedire che finisse in una prigione Usa di massima sicurezza. Senza il coraggio di Sarah Harrison, non sarebbe mai accaduto. Sono stato e sono uno dei più grandi difensori di WikiLeaks e mi disturba profondamente quando chi crede nella trasparenza spara su WikiLeaks. L'organizzazione è imperfetta, Julian Assange è imperfetto, come tutti noi, ma il ruolo che giocano è così importante. E lo dico anche se qualche giorno fa WikiLeaks ha criticato me e The Intercept (il suo giornale, ndr), in modo duro: va bene così. Sono contento che ci siano e che facciano sempre pressione per una maggiore trasparenza. E non credo che ci sarebbe stato nessun altro gruppo o persona che avrebbe fatto in quel momento quello che WikiLeaks e Sarah Harrison hanno fatto per Edward Snowden: era il ricercato più ricercato del mondo, nel mirino del più potente governo del globo».
Nel suo libro lei è molto duro con i giganti del giornalismo: “New York Times”, “Washington Post” e perfino il “Guardian”. Cosa pensa di fare con la sua nuova creatura, “Firstlook”: lei si trova a operare nello stesso contesto legale e politico in cui operano gli altri giornali, come pensa di poter fare un giornalismo aggressivo?
«È esattamente la domanda a cui stiamo cercando di rispondere. E non è facile. La cosa per me più interessante, la ragione per cui sono ottimista sul futuro del giornalismo, è la Rete, perché Internet permette di fare giornalismo in un modo completamente libero. Il problema è che le persone che fanno quel tipo di lavoro, spesso non hanno le risorse necessarie per fare inchieste contro grandi agenzie del governo. E se invece si hanno risorse è perché si finisce per lavorare per i grandi gruppi editoriali che ti dicono cosa devi fare e non puoi metterci la tua passione. Vogliamo creare un'organizzazione giornalistica dove i reporter sono completamente liberi e indipendenti, ma allo stesso tempo hanno tutte le risorse necessarie. Puntiamo a potenziare il giornalismo indipendente».
Ha paura di finire come Bob Woodward e altri grandi del giornalismo che lei sembra considerare come i custodi dei segreti di Washington, che passano l'intero giorno a parlare con i papaveri alti del governo e a far uscire i segreti che le varie fazioni del governo vogliono fare uscire per promuovere questa o quell'agenda?
«Credo sia sbagliato assumere di essere immuni da tutte queste dinamiche che corrompono l'integrità di un giornalista. La ragione per cui si finisce compromessi è che le dinamiche sono così potenti. Più si diventa professionisti di successo, più si diventa visibili, più si guadagna, più si ha accesso agli alti livelli del potere, più il rischio di diventare compromessi è serio. E la ragione per cui si finisce corrotti è che ci si ritiene immuni. Personalmente cerco ogni giorno di essere consapevole di quelle tentazioni, ma questo non è di per se una garanzia che ci riuscirò. Una delle cose che mi rende felice è che, se si guarda alla recensione del “New York Times” del mio libro, mi considerano ancora un outsider, mi fanno capire che nonostante il Pulitzer, rimango fuori dal club. E questo mi rasserena, perché non mi fa sentire troppo avvolto nelle dinamiche dell'establishment del giornalismo, che di fondo, considero corrotto».