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Wikileaks: la guerra dei giornali

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su espressonline, 10 aprile 2013

(http://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/04/10/news/wikileaks-la-guerra-dei-giornali-1.52950)

«Il "Corriere della Sera" non può collassare. E' troppo importante. E' un'istituzione nazionale. E il governo in qualche modo lo salverà, se proprio Rizzoli e Ottone non dovessero trovare un nuovo finanziatore».

A parlare così è un'icona del giornalismo nazionale, Indro Montanelli, grande confidente degli americani negli anni tra il 1973 e il 1976: lo raccontano i "Kissinger Cables" di WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva per l'Italia in collaborazione con "Repubblica". Sono anni bui, quelli dal '73 al '76. Anni di scandali, trame, crisi profonda della politica e dell'economia, con lo spettro del compromesso storico che inquieta gli americani, preoccupati di un'Italia che sterza sempre più a sinistra e che invece gli Usa vogliono collocata nel centrodestra e salda nella sua fede atlantica.

E' stata chiamata Guerra fredda, ma in realtà è caldissima. E come in ogni guerra, l'informazione non è un semplice potere. E' un'arma strategica.

I Kissinger Cables rivelano che i diplomatici Usa osservano costantemente e in modo attento la stampa italiana, ma quando irrompe sulla scena il rischio del Pci al governo passano dal semplice monitoraggio all'intervento diretto. Non è una semplice ricerca di influenza, è una crociata. «Qui non parliamo di questioni di soldi o di pubblicità», spiegano ai loro contatti che si mostrano tiepidi verso la chiamata alle armi, «parliamo della sopravvivenza della democrazia italiana e dell'intera configurazione del mondo occidentale», insistono e non vogliono lasciare nulla di intentato.

L'anno che cambia tutto è il 1975. Quello delle elezioni regionali in cui la Dc rallenta notevolmente mentre il Pci fa il grande balzo volando a oltre il 33 percento. Ad agosto la diplomazia americana parla con un contatto molto apprezzato, Montanelli, che teme il peggio: «Vede la situazione in costante deterioramento», scrive il console Usa a Milano, «può portare a un regime di tipo stalinista». Per la grande penna del giornalismo italiano non ci sono manco le risorse per fare un colpo di stato, se proprio qualcuno volesse farlo, la politica è impotente e gli imprenditori se ne fregano: guardate Agnelli, spiega, «lui non affonderà, se la democrazia italiana affonda. Il suo impero è internazionale». Eugenio Cefis, invece, è un caso speciale, secondo il grande giornalista. Il padrone della Montedison è uno che finanzia sia "Il Giornale" dello stesso Montanelli sia il "Corriere della Sera", giornali «che hanno visioni diametralmente opposte»: il primo saldamente a destra e il "Corriere" diretto da Piero Ottone schierato troppo a sinistra, secondo gli americani, ma anche a parere di Montanelli che, dopo aver lavorato una vita al Corsera, lo aveva lasciato in polemica proprio negli anni della direzione di Ottone e fondato il "Giornale" con i soldi di Cefis. «Se lui ci abbandona», confessa Montanelli, «siamo finiti». Ma in ogni caso neppure Eugenio Cefis «può o proverà a impedire al Corriere di appoggiare il compromesso storico».

I diplomatici Usa escono tutt'altro che rassicurati da quella conversazione. E quando, poco tempo dopo, sentono dire da Ottone che il "Giornale" perde copie, corrono subito a verificare i dati di diffusione, preoccupati che un alleato come il quotidiano di Montanelli possa essere in declino. A settembre 1975, invece, avvicinano un fidatissimo uomo di Cefis, Gioacchino Albanese: «è il suo faccendiere che si occupa di giornali », scrivono in un cablo ("fixer with press"), «soprattutto del "Corriere della Sera", del "Giornale" e del "Messaggero", che Montedison possiede o finanzia indirettamente». E «non c'è dubbio che è intimo di Cefis», spiegano. Dunque conosce bene piani e strategie del grande burattinaio della finanzia italiana.

Albanese racconta alla diplomazia Usa che Cefis non ha alcun desiderio di andare al governo: «Vuole il potere, ma non le responsabilità di governo», spiega con superba sintesi. Quindi se gli Usa guardano a Cefis come a un potenziale leader anticomunista su cui puntare non andranno lontano. Né devono sperare su Gianni Agnelli, li mette in guardia Albanese: «è un uomo instabile, un avventuriero che ha sperimentato le droghe e le donne», racconta. E gli americani aggiungono anche questo ai tanti attacchi contro il proprietario della Fiat che vengono dalle loro gole profonde sottolineando che «Cefis e Agnelli sono notoriamente grandi nemici a livello personale e l'uscita di Albanese coincide con le opinioni del suo capo».

Ma se anche Eugenio Cefis non vuole un impegno diretto in politica, può almeno dare una mano con i giornali?, cercano di capire gli americani. La loro priorità assoluta è invertire la rotta del "Corriere" giudicata troppo a sinistra. Il "Corsera" perde soldi pesantemente e per di più è in mano ai comunisti, risponde Albanese. Cercare di spezzare il loro controllo sul giornale peggiorerebbe ulteriormente la situazione economica, spiega. Ma se è troppo a sinistra e perde soldi, chiedono ad Albanese, perché un imprenditore come Cefis lo finanzia? «Il "Corriere" e gli altri giornali che controlla servono alla Montedison per diverse ragioni», risponde il factotum del Dottore. Prima di tutto per prevenire attacchi su faccende «estremamente costose», tipo l'inquinamento ambientale causato dal gigante della chimica. Poi per fare pressione sui funzionari del governo affinché facciano cose nell'interesse dell'azienda che altrimenti non farebbero. Infine, possono giocare un ruolo politico diretto, com'è successo per il "Giornale": «La ragione per cui Cefis l'ha creato», rivela Albanese, «è per aiutare Fanfani a diventare il leader politico di cui Italia aveva disperatamente bisogno. Ma Fanfani si è distrutto da solo. E questo ha lasciato il "Giornale" privo di una ragione per cui esistere».

Parlando con la diplomazia americana, il più stretto collaboratore di Cefis racconta di non vedere margini di manovra: non c'è neppure spazio per condizionare i giornali che controlliamo, perché alla fine cosa si può fare, visto come vanno le cose nella politica italiana? Se ci fosse una linea politica per cui battersi, se almeno esistesse una leadership, sarebbe diverso, ragiona. E invece è il vuoto: «Tutti vedono la gravità della crisi economica, ma nessuno fa niente», si lamenta. «A Roma non riesco nemmeno a trovare i ministri con cui parlare». L'unica cosa che in quella situazione si può fare è dire ai giornali controllati di stare alla larga dalla Montedison, di non creare problemi all'azienda.

Poco tempo dopo questo colloquio con Gioacchino Albanese, appare all'orizzonte una novità su cui gli americani s'interrogano nel tentativo di capire come cambierà lo scenario dell'informazione italiana: la nascita del quotidiano "La Repubblica". «Sarà diretta da Eugenio Scalfari, l'attuale direttore de "l'Espresso", il settimanale di centro sinistra che raramente è amico degli americani», scrivono nei cablo. Di sicuro "l'Espresso" dà da fare agli americani, in quegli anni: i Kissinger Cables rivelano come gli articoli del settimanale vengano spesso tradotti, commentati e inviati al Dipartimento di Stato a Washington. Anche le questioni interne del giornale sono monitorate. Come quando "l’Espresso" rompe con Lino Jannuzzi, giornasliusta politico e poi parlamentare socialista, «per il suo presunto coinvolgimento con Sindona» e al suo posto viene assunto Giancesare Flesca, notista politico di "Paese Sera", il quotidiano di proprietà del Pci: è un segnale che probabilmente il settimanale prenderà una posizione più favorevole al compromesso storico, riportano i diplomatici Usa nei loro dispacci.

Quanto a "Repubblica", concludono che «è difficile che sarà una lettura molto piacevole per noi». Il quotidiano uscirà per la prima volta nel gennaio del 1976, ma a novembre 1975, gli americani vanno già in cerca di intercessioni per condizionarlo. Il consolato di Milano avvicina Leopoldo Pirelli, vicepresidente di Confindustria, chiedendogli di usare la sua influenza su Eugenio Scalfari per avere un trattamento più benevolo sia per gli Stati Uniti che per le relazioni atlantiche. Ma Pirelli fa presente che «per quanto riguarda la stampa, non credo che la Confindustria possa dire cosa deve fare». E' una risposta che scatena negli americani una reazione indispettita che svela toni da crociata: «non si tratta di una questione di soldi o di pubblicità», insistono, «ma di sopravvivenza della democrazia italiana e dell'intera configurazione del mondo occidentale».

Negli ultimi mesi del 1975 che precedono la nascita di "Repubblica", la situazione economica del "Corriere" è sempre più drammatica. E improvvisamente il quotidiano sterza a destra. «Il brusco cambio di orientamento politico del "Corriere della Sera", che lo ha portato a essere meno ostile agli Usa e alla Dc e molto più critico nei confronti del Pci e dell'Unione Sovietica, è quasi certamente dovuto alla sua crisi finanziaria», comunica il consolato di Milano a Washington. Il giornale ha un debito enorme e il proprietario Angelo Rizzoli sta cercando di ottenere un prestito, spiega la diplomazia Usa al Dipartimento di Stato. Se proprio le cose dovessero mettersi male e il "Corriere" dovesse fallire «e non è uno scenario impossibile, a beneficiarne saranno il "Giornale" e il nuovo quotidiano di sinistra, ma non comunista, "La Repubblica"». Ironia della Storia, è proprio un grande conservatore come Montanelli a rassicurare gli americani sul ruolo che giocherà il più importante quotidiano progressista del Paese: «La "Repubblica" può giocare un ruolo molto costruttivo nella politica italiana».