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Comandante Assange, ribelle sotto assedio

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su espressonline, 23 ottobre 2013

(http://espresso.repubblica.it/internazionale/2013/10/23/news/comandante-assange-ribelle-sotto-assedio-1.138757)

Dentro l'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove è rifugiato dal 19 giugno del 2012, ormai neppure si parla più. Da quando il destino di Edward Snowden ha incrociato quello di WikiLeaks, Julian Assange è ridotto a scrivere su piccoli fogli di carta quando vuole discutere di argomenti rilevanti con chi gli fa visita.

Il prossimo 31 ottobre saranno 500 giorni esatti che vede il sole esclusivamente da dietro una finestra, non respira una boccata di aria fresca, non sa più cosa significa camminare per strada e quando gli nomini il mare, chiude gli occhi, come se cercasse di ricordare le sensazioni degli spazi aperti e sconfinati, che da tempo non prova.

La sede diplomatica dell'Ecuador a Londra è un piccolo appartamento nel quartiere esclusivo di Knightsbridge, dove non c'è alcun salone ampio, giardino o anche solo un cortile. Tutto quello che Julian Assange può fare è spostarsi da una piccola stanza all'altra e interagire con il mondo attraverso la sua organizzazione e attraverso quella protesi unica che è il suo computer.

Il massimo del cambiamento che l'Espresso ha potuto constatare in questi 500 giorni è stato il passaggio dallo stanzone di 20 metri quadri, in cui fino a pochi mesi fa Assange dormiva e lavorava, a una stanza più piccola che utilizza come ufficio: zeppa di libri e computer, ma molto più luminosa.

Nell'ambasciata le misure di sicurezza sono state rafforzate rispetto ai primi mesi della sua presenza, ma all'interno il clima è tranquillo: più che una sede diplomatica sembra la casa di una famiglia che convive in spazi angusti, ma in armonia.

La prima volta che l'Espresso ha avuto a che fare con la sua organizzazione era l'estate del 2009. WikiLeaks e Julian Assange non erano ancora delle celebrità. Si materializzarono nel cuore della notte con un file audio sul presunto coinvolgimento dei servizi segreti italiani nello scandalo dei rifiuti a Napoli . Poi si dileguarono, sparirono, inutile cercare di raggiungerli al cellulare o per email.

Poco tempo dopo, il caso WikiLeaks esplose a livello internazionale, con la pubblicazione del video “Collateral Murder”, in cui si vedeva un elicottero americano Apache che sparava su civili inermi a Baghdad, tra cui due giornalisti dell'agenzia Reuters.

Due mesi dopo il rilascio del video, Julian Assange si presentò al parlamento europeo per una conferenza. Zaino, sguardo intenso e viso telegenico, era già inseguito dai giornalisti di mezzo mondo.

Quando l'Espresso iniziò a intervistarlo davanti a una telecamera senza pretese, lui s'irrigidì, chiedendoci di spegnerla e dimostrando una certa preoccupazione: sedeva su un giacimento-bomba di centinaia di migliaia di file segreti che il giovane soldato Chelsea Manning (allora Bradley), aveva avuto il coraggio di inviare alla sua organizzazione e che WikiLeaks si preparava a pubblicare.

Quello che successe nei mesi successivi ha cambiato il giornalismo e, più in generale, il mondo dell'informazione. Nel luglio del 2010, WikiLeaks pubblicò 76mila documenti sulla guerra in Afghanistan (Afghan War Logs) insieme al Guardian, al New York Times e al tedesco Spiegel.

Per la prima volta in dieci anni di combattimenti, era possibile guardare alla realtà del conflitto in Afghanistan al di là di narrative ufficiali, censure, coperture a singhiozzo di quello che accadeva al fronte.

Brillante, figlio della cultura hacker degli anni '90, underground e libertaria, ai reporter del settimanale tedesco “Spiegel” che gli chiedevano cosa lo motivasse a fare un lavoro come quello di WikiLeaks, invece che usare il suo talento tecnico per fare i soldi come un qualsiasi Mark Zuckerberg con Facebook, rispose: «Viviamo tutti una sola volta. E quindi siamo obbligati a fare un buon uso del tempo che abbiamo e a fare qualcosa di significativo e che ci soddisfa. Io trovo che quello che faccio sia significativo e soddisfacente. E' il mio carattere. Mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi».

Le reazioni al rilascio dei documenti sull'Afghanistan non si fecero attendere. Il Pentagono andò su tutte le furie, WikiLeaks venne immediatamente accusata di avere «le mani lorde di sangue», perché pubblicando documenti classificati avrebbe messo a rischio le vite di soldati e informatori.

Neppure un mese dopo la pubblicazione dei documenti sull'Afghanistan, Assange finì al centro di una vicenda giudiziaria senza fine: durante un soggiorno in Svezia, due giovani donne lo accusarono di avere avuto con loro rapporti sessuali consensuali, ma senza usare il preservativo, nonostante la loro esplicita richiesta. Vennero aperte indagini preliminari ipotizzando inizialmente il reato di stupro, successivamente derubricato a molestie e poi si tornò di nuovo a indagare per stupro, seppure una fattispecie meno grave (“less serious crime”).

Il caso svedese non fermò né Assange né WikiLeaks. Ai file sulla guerra in Afghanistan seguirono quelli sul conflitto in Iraq, i cablo della diplomazia americana e le schede dei detenuti di Guantanamo. Documenti che, tra le altre cose, hanno permesso di rivelare 15mila vittime civili della guerra in Iraq, “sfuggite” alla contabilità generale e il modus operandi, le manovre, le pressioni e i ricatti della diplomazia Usa operante in 280 ambasciate e consolati di 180 paesi nel mondo.

Dieci giorni dopo l'inizio della pubblicazione dei cablo, Assange si consegnò alla polizia londinese, perché i magistrati svedesi ne avevano ordinato l'arresto tramite l'Interpol, rendendolo un ricercato in tutto il mondo. Ad oggi non è incriminato per alcun reato, ma l'autorità giudiziaria svedese ne pretende l'estradizione a Stoccolma per poterlo interrogare in merito alle accuse delle due donne.

Alle richieste di Assange di essere interrogato a Londra, senza essere estradato, il magistrato svedese si è sempre e strenuamente opposto, esattamente come Assange si è sempre e strenuamente opposto all'estradizione in Svezia, convinto che sia solo il primo passo verso quella negli Stati Uniti, dove lui e il suo staff rischiano l'incriminazione per la pubblicazione dei documenti segreti.

Esaurite tutte le vie legali per opporsi all'estradizione, nel giugno 2012, il fondatore di WikiLeaks chiese asilo politico, rifugiandosi nell'ambasciata ecuadoriana di Londra, dove ancora oggi si trova.

Ma nonostante lo status di rifugiato che ha ottenuto asilo dall'Ecuador, ad oggi, non può mettere un solo piede fuori dall'edificio, perché verrebbe immediatamente arrestato dagli agenti di Scotland Yard che circondano l'ambasciata giorno e notte. Il governo inglese, infatti, rifiuta di concederli un salvacondotto per uscire dall'ambasciata e volare in Ecuador, dove gode legittimamente del diritto di asilo.

Dopo la pubblicazione dei documenti segreti del Pentagono e del dipartimento di Stato americano, WikiLeaks e Assange non hanno più avuto tregua. «E' lo scontro con gli Stati Uniti che ha creato un'immensa pressione su di noi», ha raccontato nel novembre scorso a l'Espresso, «Un conflitto di tale intensità, scatenato a tutti i livelli contro di noi: a livello di Stato, di intelligence, di politica, a livello legale, finanziario e di attacchi mediatici».

Indagato insieme al suo staff dal governo americano in un procedimento segreto del Grand Jury ad Alexandria, in Virginia, di cui a oggi si hanno pochissime notizie certe, se non la conferma che «l'inchiesta va avanti», come ci racconta l'avvocato di WikiLeaks, Michael Ratner, del Center for Constitutional Rights di New York. Attaccato dagli stessi giornali a cui ha regalato scoop mondiali. Lasciato completamente solo a combattere contro il blocco stragiudiziale delle donazioni. Accusato di aver messo in pericolo vite umane, delegittimato sul piano personale.

Oggi che Hollywood manda in scena un film su Julian Assange e sul suo Quinto Potere, veleni e accuse di sempre continuano a fare notizia e poco importa che il processo a Chelsea Manning davanti alla corte marziale abbia permesso di stabilire che nessuno ha perso la vita in seguito alla pubblicazione dei documenti di WikiLeaks, come ha riportato ampiamente il quotidiano londinese “Guardian”.

Confinato nell'ambasciata, Assange rimane concentrato sul suo lavoro come sempre. L'immagine più efficace del leader di WikiLeaks l'ha fornita il giornalista americano Michael Hastings: il reporter - prematuramente scomparso in un incidente stradale nel giugno scorso - che fece dimettere il generale Stanley McChrystal, comandante della missione Nato in Afghanistan. Hastings ha definito Assange «un comandante ribelle sotto assedio».

Che Julian Assange e i suoi ribelli non siano minimamente disposti a mollare, nonostante l'assedio, l'hanno dimostrato con il caso Edward Snowden. E ai giornalisti che gli chiedono della sua vita privata, degli affetti e da quanto non vede i suoi figli, Assange risponde sistematicamente: «per ragioni di sicurezza, non posso parlare della mia famiglia».