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GLI ITALIANI DI GUANTANAMO

Di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi

Pubblicato su l'Espresso, 29 aprile 2011

(http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dallitalia-a-guantanamo-chi-sono/2150135)

Era al fianco di Osama Bin Laden nell'ultima battaglia, arroccato nelle caverne di Tora Bora ha guidato la sua brigata di guerriglieri tunisini arruolati tra Italia e Maghreb nella resistenza contro i marines, coprendo la fuga del fondatore di al Qaeda. Poi ha radunato i suoi uomini e si è ritirato in Pakistan, dove lo hanno convinto a deporre le armi. Ma "il comandante Bilal", il bolognese della Jihad, non si è mai arreso. Anche nella cella di Guantanamo ha continuato a minacciare: "Se avessi l'occasione sarei pronto a uccidere il presidente Bush. E se ci rilascerete, noi ci vendicheremo contro di voi". Muhamed Bin Erfane è uno degli otto detenuti del campo di concentramento che ha vissuto nel nostro Paese: un veterano, che ha combattuto in Bosnia e in Afghanistan, diventando un capo e "un consigliere militare di Bin Laden".

I dossier personali di questi reclusi, ottenuti ora da WikiLeaks e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, mostrano quanto fosse ramificata la rete del terrore islamico nel nostro Paese, con un network che da Torino, Milano, Bologna e Napoli riforniva le basi afghane. Allo stesso tempo, però, le schede evidenziano la frettolosità con cui molte persone sono state rinchiuse per anni nelle gabbie del campo di concentramento senza la minima prova. E svelano un gioco di informatori, confessioni, supposizioni alimentato da governi interessati - come il regime tunisino abbattuto dalla rivolta dello scorso gennaio - o agenzie di intelligence incapaci di fornire elementi concreti.

Da pusher a terrorista
E' un percorso che sembra unire diverse delle reclute di al Qaeda, ragazzi maghrebini che vengono in Italia, fanno i manovali o raccolgono frutta poi cominciano a vendere eroina e drogarsi. I predicatori islamici, conosciuti in carcere o nelle moschee, li aiutano a disintossicarsi e poco alla volta li convertono alla guerra santa. E le loro frequentazioni nel mondo criminale diventano utili per la nuova causa, garantendo documenti contraffatti, soldi falsi o finanziandola con il commercio di droga. Più volte gli americani parlano di "traffici condotti con la mafia", ma sembra una valutazione approssimativa. Il fascicolo di Adel Ben Mabrouk racconta una di queste storie: un giovane che nel 1989 dalla Tunisia raggiunge la Sicilia e poi si trasferisce a Milano. Spaccia, "ma spende gran parte dei guadagni per comprare eroina per uso personale".

Viene condannato e sconta un anno nel penitenziario di Pesaro. Lì comincia il suo percorso verso l'Islam, perfezionato nella moschea milanese di viale Padova. Nel febbraio 2001 parte per Kabul, via Teheran, dove gli spiegano come usare un Kalashnikov. Non è chiaro cosa abbia fatto durante gli attacchi statunitensi, ma a dicembre viene catturato in Pakistan, identificato grazie al tesserino del codice fiscale e consegnato agli americani. Gli agenti della Cia sospettano subito di lui per l'orologio che indossa: un Casio modello 91-W, che ritengono sia quello usato da al Qaeda come timer per gli attentati. E, in base ad altri interrogatori, si convincono che sia stato addestrato a usare gli esplosivi. A Guantanamo Ben Mabrouk diventa un duro. Si ribella in tutti i modi: in meno di cinque anni gli vengono contestate 28 violazioni dello spietato regolamento carcerario. Eccone alcune: viene scoperto mentre parla senza autorizzazione con altri reclusi, mentre nasconde "oggetti di contrabbando" ossia "due pagine di quaderno a righe" e "del cibo"; nella gabbia "usa un asciugamano come un'arma per danneggiare oggetti, incita a un disturbo di massa". Infine "ha afferrato la mano di una guardia e ha cercato di trascinarla verso di sé". Il giudizio finale è chiaro: "Rappresenta una minaccia ad alto rischio per gli Usa e i loro alleati, è un detenuto ad alto rischio per il comportamento carcerario". Per questo consigliano di "spostarlo fuori dal nostro controllo".
Chissà se di tutto questo il governo italiano è stato informato quando nell'autunno 2009 ha accettato il trasferimento di Adel Ben Mabrouk nel nostro Paese. In realtà, i documenti di WikiLeaks fanno capire che si è trattato di una sorta di triangolazione: il recluso interessava al governo di Tunisi, che lo aveva condannato in contumacia a vent'anni per terrorismo. Gli Usa lo hanno estradato in Italia, poi il ministro Roberto Maroni - che aveva cercato di opporsi all'arrivo degli ex di Guantanamo - lo ha espulso e mandato in Tunisia. Ben diverso il curriculum dell'altro detenuto consegnato alle autorità italiane: Ben Mohamed Riadh Nasri, secondo gli americani ha combattuto a Tora Bora ed è stato ferito dai bombardieri statunitensi. Lui nega di avere fatto parte di gruppi estremisti, nonostante abbia ammesso di essere stato addestrato in un campo di militanti. "E non ha sufficientemente spiegato le sue attività italiane".

Il pescatore
Gli americani suggeriscono di rimandare in patria anche Lufti Bin Lagha, ex poliziotto che poi ha vissuto dal 1997 tra Bolzano, Milano e Vittoria lavorando a cottimo nei cantieri e nei campi "per 50-60 mila lire al giorno". Nel 1998 incontra un "missionario di al Qaeda" in una moschea di Napoli e viene convinto a partire per l'Afghanistan. Ma lì racconta di essere andato in giro per fatti suoi: prima a Kabul, poi a Jalalabad "dove sono rimasto a pescare e riposarmi, senza nessuna intenzione di combattere. Non ho mai impugnato le armi contro gli americani o contro chiunque altro e non sono mai stato in un centro di addestramento". Quando scoppia la guerra attraversa a piedi le montagne, nel ghiaccio di dicembre ma si ammala e viene ricoverato in Pakistan. Lì però scoprono che aveva una carta di identità italiana e 2 mila dollari: quanto basta per imbarcarlo su un volo per Guantanamo.

Network coop
Dai dossier della prigione l'Italia degli anni Novanta emerge come una sorta di paradiso logistico per i terroristi, che nel nostro Paese potevano organizzare le loro schiere. Si parla spesso della Piccola società cooperativa Eurocoop come una delle coperture sfruttate per ottenere permessi di soggiorno legali. A Guantanamo è finito uno dei fondatori: Abdul Haddi Bin Hadiddi, descritto come un globetrotter della Jihad in viaggio tra Bologna, Mauritania, Pakistan, Belgio. Le accuse contro di lui sono quelle trasmesse dalle autorità di Tunisi, senza prove specifiche. Lo descrivono come reticente, perché fino al 2004 non ha ammesso i suoi soggiorni italiani. "Si ritiene che i suoi documenti di identità siano stati trovati in una delle grotte di Tora Bora a metà dicembre 2001". Ma quali documenti? Lo stesso detenuto viene indicato come un falsario. E c'è un altro pasticcio: "La polizia italiana ha intercettato una conversazione tra un militante islamico che si trovava in Italia e il detenuto nel 2002. La registrazione include il suono di esplosioni che fa pensare che il detenuto e il suo gruppo stessero cercando di sfuggire a un attacco aereo. Per quanto la data delle intercettazioni e la scoperta dei suoi documenti non coincidano, questi elementi possono supportare la convinzione che fosse affiliato alle forze che si opponevano alla coalizione guidata dagli Usa". Piccolo problema: "La data della telefonata intercettata riportata nel documento la colloca dopo l'arresto del detenuto". Un errore marchiano fatto in Italia oppure c'è stato un errore di persona?
A Guantanamo l'uomo viene considerato un ribelle: "Getta feci e urine contro le guardie. Incita al disturbo, ha partecipato a uno sciopero della fame rifiutando 53 pasti consecutivi". Ma tre anni dopo il suo trasferimento nelle gabbie l'unica certezza era "che avesse falsificato documenti in Italia a metà anni Novanta per la rete di supporto estremista". Il resto sono solo supposizioni.