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SHAHRISTANI: QUANDO SADDAM MI CHIESE LA BOMBA - INTERVISTA A HUSSAIN AL-SHAHRISTANI

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su LA STAMPA, 25 settembre 2005

Hussain Al-Shahristani, l’uomo che ha detto no a Saddam è oggi in Italia,a Castiglioncello (LI), ospite di un’importante associazione italiana: l’USPID, Unione Scienziati per il Disarmo. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia.

Professor Shahristani, come sono nati i suoi rapporti con Saddam?
Lo conoscevo già da prima che diventasse presidente dell’Iraq, perché io ero nella Commissione irachena per l’Energia Atomica e Saddam, come vicepresidente della Repubblica dell’Iraq, doveva interagire con noi. Già in quel periodo avevo capito che persona fosse: vendicativo e autoritario. Nel 1979, quando si è autonominato presidente, io ero il capo scientifico della Commissione per l’Energia Atomica e Saddam fu veramente chiaro: voleva dirigere la nostra ricerca verso le applicazioni militari, ma io non ero affatto disponibile.

Sapeva quanto fosse rischioso dirgli no?
Sì. E infatti anziché dire che non volevo lavorare alle armi, ho cominciato a contestare apertamente le violazioni dei diritti umani del suo regime, pensando che in quel modo sarei stato fatto fuori dalla Commissione per l’Energia Atomica e avrei evitato di lavorare all’atomica. Credevo fosse una tattica meno pericolosa.

Perché era così determinato a non lavorarci?
Innanzitutto, sono un credente e la religione musulmana su questo è veramente chiara: la conoscenza deve essere usata solo per il bene dell’umanità. Poi, proprio perché lo conoscevo, sapevo bene chi fosse.

E quindi?
Nel dicembre del ’79 mi arrestarono e mi torturarono per 22 giorni e 22 notti. Non volevano lasciare segni permanenti sul mio corpo. Ed erano veramente bravi a torturare: non ho un segno addosso. Mi attaccarono al soffitto con le braccia legate dietro la schiena per far saltare i nervi delle spalle e mi applicarono la corrente sui genitali e le altre parti sensibili del corpo. Non volevano lasciare prove perché ero uno scienziato molto in vista anche a livello internazionale. Pensavano che alla fine sarei crollato e avrei accettato di tornare in laboratorio a lavorare alle armi.

E invece si sbagliavano..
Sì. Sei mesi dopo l’arresto, venne da me il capo della sicurezza dell’Iraq, il fratellastro di Saddam, e mi disse che Hussein era dispiaciuto e che mi voleva di nuovo al lavoro. Fu molto diretto: abbiamo bisogno di costruire la bomba, mi disse.

La volevano per ragioni ideologiche o religiose?
No, Saddam era semplicemente interessato al potere: quando gli conveniva essere religioso, lo era, quando gli conveniva stare dalla parte dei russi, faceva il filosocialista. Voleva la bomba per ridisegnare la mappa del Medio Oriente e alla fine, con il petrolio del Golfo, l’Iraq di Saddam sarebbe diventata un superpotenza.

Che cosa rispose al fratellastro di Saddam?
Gli dissi che non ero in grado di lavorare, dopo tutte quelle torture. Lui mi guardò e disse che è dovere di ogni uomo servire il proprio Paese: chi non è disposto a farlo non merita di vivere. Mi assicurò che, se avessi accettato, mi avrebbero mandato i migliori dottori per curarmi e mi avrebbero preparato un posto nel palazzo presidenziale, dove avrei goduto di tutti i privilegi e i lussi che volevo.

Lei però non mollò e finì in isolamento…
Dieci anni di isolamento ad Abu Ghraib: dal maggio dell’80 a quello del ‘90. La guardia che mi portava da mangiare non poteva dirmi una sola parola, non avevo carta, né libri né giornali, neppure quelli di regime. Alcuni sono impazziti. Io, invece, cercavo di pregare, quando avevo bisogno di parlare. Poi, dopo due anni, la guardia che mi portava da mangiare mi disse: “Dottor Hussain, sappiamo tutto, il Paese ne è veramente orgoglioso. Se posso fare qualcosa che posso, me lo dica”. Io pensavo fosse un trucco della sicurezza per incastrarmi, così rifiutai. Alla fine, però, tra noi si creò un rapporto di fiducia e cominciammo a pianificare la mia fuga: la guardia mi diede perfino una copia della chiave della prigione, ma sapevo benissimo che, se fossi scappato, il regime sarebbe andato a cercare mia moglie e i miei figli. Quando però, nel ’91, gli Stati Uniti attaccarono l’Iraq per l’operazione Desert Storm e il paese finì nel caos più totale, con tutte le comunicazioni saltate, scappai dalla prigione grazie alla guardia, che mi fece travestire con l’uniforme del capo della sicurezza.

Dove si rifugiò?
Dapprima nel nord dell’Iraq con la mia famiglia, ho messo subito in piedi un’organizzazione per proteggere i rifugiati iracheni. Poi, nel ’95, sono andato in Inghilterra. Quando nel 2003 gli americani erano pronti ad attaccare, io ero in Kuwait: aspettavo il permesso per poter portare gli aiuti umanitari in Iraq.

Quando ha sentito dello scandalo delle torture americane nel suo carcere, Abu Ghraib, come l’ha presa?
E’ stato molto triste. Ricordiamo tutti le storie terribili di bambini torturati per fare parlare i genitori o di donne violentate davanti ai mariti.

Lei oggi è di nuovo professore all’università di Bagdad, ma ha rifiutato di fare il premier del primo governo iracheno del dopo Saddam. Perché?
L’inviato dell’ONU me l’aveva chiesto, ma io volevo essere scelto dal popolo iracheno, non messo lì da qualcuno, anche se questo qualcuno erano le Nazioni Unite. Così ho aspettato le prime elezioni libere del nostro Paese e mi sono candidato. Sono stato eletto ed oggi sono il vicepresidente del parlamento iracheno.

Saddam aveva armi di distruzione di massa?
Non aveva quelle nucleari, ma non c’è dubbio che avesse armi chimiche e biologiche e le ha anche usate, ammazzando 5000 donne e bambini iracheni. Ma la vera domanda è: le aveva nel 2003, prima dell’attacco americano? Finora non siamo stati in grado di trovarle, come del resto non abbiamo trovato tante altre cose in Iraq, perché c’è un gran caos. Comunque, per gli iracheni, l’arma di distruzione di massa più pericolosa era Saddam stesso e sono molti ad essere felici che quell’arma sia stata fatta fuori.