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UNO SCIENZIATO CONTRO - INTERVISTA A RENZO TOMATIS

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su Tuttoscienze de LA STAMPA, 7 settembre 2005

Renzo Tomatis, oncologo di fama internazionale, dal 1982 al 1993 ha guidato lo IARC di Lione, ovvero l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Alle spalle ha una storia che insegna molte cose su come va il sistema della ricerca in Italia e all’estero. E questo è anche il tema del suo terzo romanzo, “Il Fuoriuscito”, pubblicato di recente dall’editore Sironi.

Professore, partiamo dalla sua laurea in medicina a Torino. Dopo quella laurea, lei lasciò l’Italia. Era il ’59 e dunque il boom era alle porte, perché se ne andò?

Sarà stato anche alle porte, il boom, ma io non me ne ero accorto! Dopo la laurea, ho lavorato in università 8 ore al giorno per 6 anni senza vedere una lira: l’università italiana era arretrata e baronale, i soldi per la ricerca non c’erano, quindi non appena ho ricevuto un’offerta per andare negli USA, l’ho presa al volo.

Subito dopo l’esperienza americana, lei è andato in Francia a guidare lo IARC ed è diventato il “guru assoluto” della prevenzione primaria del cancro. In cosa consiste esattamente?

Quando si parla di prevenzione del cancro, tutti pensano alla cosiddetta diagnosi precoce, ma c’è una prevenzione che si può fare a monte, cercando non di limitare i danni della malattia diagnosticandola al più presto, quanto piuttosto di evitare l’insorgere del cancro, evitando l’esposizione alle sostanze che lo provocano. La prevenzione primaria si occupa proprio di questo: fare ricerca sulle sostanze naturali o sintetiche per capire quali sono cancerogene e, una volta individuate, suggerire alle autorità sanitarie delle misure di salute pubblica per toglierle dalla circolazione. Si tratta di una strategia che protegge tutti - il ricco come il povero - ma purtroppo è bistrattata da scienziati, politici e autorità sanitarie.

Perché?

Per tutta una serie di ragioni, tra cui una fondamentale: interferisce pesantemente con la produzione industriale e quindi va a minacciare interessi enormi.

Interessi che neppure la comunità scientifica vuole intaccare?

In passato, per bloccare la ricerca che dava fastidio all’industria si tagliavano i fondi, oggi si fa brillare la luce dei fondi di ricerca in direzioni diverse, in modo che uno scienziato che ami la ricerca vada a farla in settori che non sono necessariamente quelli in cui dovrebbe farla, bensì quelle in cui può farla. E così oggi, grazie ai finanziamenti delle multinazionali, discipline dal futuro brillante - come la biologia e la genetica molecolare - puntano a blindare l’individuo nei confronti dell’inquinamento ambientale. In questo modo, i ricercatori possono beneficiare dei fondi per le ricerche che vanno in questa direzione, le industrie che immettono cancerogeni nell’ambiente possono continuare a inquinare e a fare i loro affari e le multinazionali farmaceutiche possono vendere i kit diagnostici e le terapie sviluppate dai ricercatori, ricavandone profitti. E’ un meccanismo da cui tutti traggono vantaggio, a parte chi si ammala di cancro.

Pensa che si potrebbe cambiare qualcosa, giocando sul danno di immagine delle industrie che inquinano? Oggi, qualunque realtà commerciale deve fare attenzione all’immagine.

Francamente, sono piuttosto scettico. Basta vedere quello che è successo al Progetto REACH della Comunità Europea. Normalmente, si tende ad assumere che le sostanze più comuni con cui entriamo a contatto, presenti nei nostri edifici, nei vestiti, nei giocattoli dei bambini, ecc.. siano state tutte testate per acquisire dati certi sulla loro eventuale tossicità. E invece non è affatto così. Il parlamento europeo aveva lanciato questo progetto per obbligare le industrie - per la prima volta nella storia - a testare a loro spese 30.000 sostanze di uso comune e a fornire i dati. Ebbene, il REACH è stato attaccato in modo così violento dalle lobby dell’industria europea e americana che da 30.000 sostanze, si è scesi a 500 e poi 50. Sarà grassa se si riuscirà a testarne una decina, perché ormai il progetto è compromesso. Spero solo che se ne sia parlato abbastanza, in modo che se le lobby provano ad affondarlo definitivamente, ci sia una rivolta da parte dell’opinione pubblica.

Tornando alla sua storia, lei come ha maturato un interesse tanto forte verso la prevenzione primaria?

Prima di lasciare l’Italia per fare ricerca all’estero, ho fatto il medico: vedere ragazzini malati in un modo senza speranza mi ha fatto pensare che l’unica possibilità di salvarli era evitare che si ammalassero e così anche vedere casi di mesotelioma da amianto - una forma di cancro terribile, in cui il malato muore tra sofferenze enormi - mi ha portato a concludere che l’unica cosa che valeva, e vale tuttora, era evitare l’esposizione all’amianto.

Visti gli interessi in ballo, lei come è riuscito a fare dello IARC un esempio al mondo di centro di ricerca focalizzato sulla prevenzione primaria del cancro?

In realtà, c’è un altro centro tipo lo IARC, si trova negli Stati Uniti, ma chi lo ha messo in piedi si è formato da noi. Comunque, è stata molto dura, a volte durissima. All’inizio abbiamo potuto sviluppare lo “zoccolo duro” del nostro programma perché nessuno ci prendeva sul serio: eravamo quattro gatti, poco conosciuti e in una città come Lione, anziché Parigi o New York. Mi ero creato delle ottime relazioni umane e professionali con scienziati di vari paesi che allora erano i grandi nomi della cancerogenesi chimica, che mi aiutarono a mettere in piedi il programma finché alcuni di loro non si accorsero che, stando dalla mia parte, si stavano bruciando e a quel punto mi hanno mollato, perché avevano rapporti di consulenza con le multinazionali. Ci siamo beccati minacce - arrivate subito dopo il nostro lavoro sull’amianto - pressioni per il taglio dei fondi e anche “offerte” in cambio di un atteggiamento più morbido: per esempio, l’apertura di un conto segreto del quale avrei saputo il numero solo il giorno in cui sarei andato in pensione, in modo che, se interrogato, potessi negarne l’esistenza senza mentire!

I suoi colleghi che avevano rapporti con le multinazionali come ne parlavano?

Alcuni insistevano che è nell’interesse di tutti che l’industria possa contare sui consigli degli esperti più qualificati. Ed è vero: sono perfettamente consapevole che non possiamo fare a meno dell’industria e non vedo perché l’industria non dovrebbe servirsi dei pareri dei nostri migliori scienziati, ma i pareri scientifici devono servire a migliorare la produzione, non a nasconderne i rischi.

Dopo 35 anni all’estero, lei è tornato in Italia per passarci almeno gli anni della pensione. Negli anni trascorsi fuori, ha maturato una visione non provinciale del nostro paese e della nostra ricerca scientifica. Come ha giudicato l’Italia nei giorni del referendum sulla fecondazione assistita e sulle staminali, che è stato un importante test del rapporto tra il nostro paese e la scienza?

Mah...francamente credo che questo referendum abbia proprio tirato fuori un paesaccio. La legge è sbagliata - e questo è stato capito perfino da chi l’aveva approvata, che serietà, eh? - perciò io sono andato a votare, ma devo dire che sono rimasto piuttosto scioccato da come è stata gestita l’intera questione: coppie con problemi molto seri costrette a mettere in piazza le loro faccende più intime, gente normale che non riusciva a capire neppure di che si discuteva e mi fermava al distributore di benzina per chiedermi delle staminali o della crioconservazione: proprio un paese alla deriva! La battaglia andava assolutamente fatta in parlamento, non con un referendum, anche per non dar esca al crescente strapotere clericale.

Infine, guardando indietro, rifarebbe le scelte che ha fatto?

Credo che rifarei il medico, perché il medico gode di un privilegio unico: ha la possibilità di entrare in comunicazione con gli altri in un modo che nessun’altra condizione permette, a eccezione di quella del prete, per cui non mi sento portato. Negli anni in cui l’ho fatto, ho provato una sensazione che credo provi qualunque medico che abbia un atteggiamento di simpatia verso il suo prossimo: riuscivo a comunicare con i pazienti in modo totale, cadevano tutte le barriere dell’estraneità e mi ritrovavo a parlare con loro delle cose che veramente contano nella vita. E’ una condizione che permette di aiutare gli altri non solo con le medicine, ma anche con le parole, la vicinanza, la compassione e i consigli.

Quindi, sostanzialmente lei rifarebbe il medico, ma non la ricerca, il che è comprensibile dopo quello che ha vissuto...

In realtà, non sono affatto sicuro che, tornando indietro, saprei resistere alla tentazione della ricerca: per un giovane è difficile non sentire l’attrazione per la ricerca del nuovo, di una spiegazione o una soluzione migliore. E se guardo indietro ai miei anni di ricercatore giovane e pieno di ideali, mi sento un perdente, ma non uno sconfitto, perché credo che nonostante tutto ci sia ancora un terreno che si presta alla crescita di persone che lavorano bene, al di fuori delle logiche dei soldi e della carriera e solo indirizzati dalla passione civile.