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TERREMOTI UGUALI, DRAMMI DIVERSI - INTERVISTA A BRIAN TUCKER

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su “Tuttoscienze” de “LA STAMPA”, 18 febbraio 2004

Nel dicembre scorso, in California, un terremoto di 6.5 gradi della scala Richter ha ucciso 2 persone e distrutto 1 casa, mentre a Bam, in Iran, uno di 6.6 gradi ne ha uccise più di 30.000 e ha distrutto l'85% delle strutture della città, lasciando 30.000 feriti e100.000 senza tetto.

C’è una sola organizzazione non governativa al mondo che si occupa esclusivamente di prevenire e ridurre i danni del terremoto nei paesi in via di sviluppo: si chiama “GeoHazards International” (GHI), ha sede a Palo Alto, in California, ed è stata fondata nel ’91 dall’americano Brian Tucker, sismologo eminente ed ex professore alla Stanford University (California). Brian Tucker e la sua GHI hanno lavorato_ spesso in collaborazione con l’ONU _ in tutti i posti più disastrati del mondo, dall’America Latina all’India. Recentemente, ha vinto il “Genius Award”, un premio di 500.000 dollari che la Fondazione americana MacArthur fa piovere addosso a ignari scienziati, artisti, giornalisti, insegnanti e attivisti, che avendo il “coraggio di sfidare ortodossie consolidate, si assumono la responsabilità di rischiare in campo culturale, scientifico e intellettuale”, producendo nuove idee, “mettendo in luce le potenzialità dell’uomo e plasmando il futuro della collettività”. Lo abbiamo intervistato durante una delle sue missioni a Nuova Delhi.

Dottor Tucker, il confronto tra il terremoto in California e quello in Iran non è impressionante?

E’ impressionante, ma non eccezionale: basta prendere i dati degli ultimi anni. In California, nell’’89, ci fu un terremoto di 6.9 gradi della scala Richter, nel ’94 uno di 6.7 gradi e, infine, nel dicembre scorso uno di 6.5: tutti e tre insieme hanno ucciso 125 persone. Se invece consideriamo terremoti della stessa entità che, però, hanno colpito paesi in via di sviluppo, scopriamo che nel ’95, in Messico sono morti circa 30.000 persone, nel ’98 in Armenia 40.000, nel ’99 in Turchia forse più di 30.000, infine nel 2001 in India circa 20.000 persone.

Le statistiche dimostrano che tra il 1900 e il 1950, i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo presentavano gli stessi tassi di mortalità da terremoto, ma dopo il ’50 il tasso di mortalità dei primi è sceso drammaticamente, mentre quello dei secondi è aumentato!

Negli ultimi cinquant’anni, le aree urbane dei paesi poveri sono cresciute in modo impressionante: la popolazione cresce rapidamente, i terreni sono costosi e quindi si costruisce in altezza, velocemente, con materiali scadenti e senza regole, perciò la mortalità è aumentata. Nei paesi sviluppati, invece, si è investito nella ricerca scientifica e ingegneristica e sono stati istituiti e, soprattutto fatti rispettare, dei regolamenti edilizi seri. Purtroppo, nei confronti del terremoto c’è un atteggiamento fatalista: non si può prevedere né fermare. Ma se è vero che non si può controllare, è anche vero che si può impedire che semini distruzione e morte perché case e edifici vengono costruiti nel modo e/o nel posto sbagliato. E il confronto che dicevamo prima lo dimostra.

Quindi, nel mondo sviluppato, scienziati e ingegneri sanno come costruire edifici sicuri, ma il problema è: si può fare in paesi in cui non ci sono soldi, tecnologie o competenze?

Beh, lei parla di “edifici sicuri”, ma in caso di terremoto forse solo un bunker di cemento senza finestre potrebbe esserlo! E dubito che qualcuno voglia viverci! In natura non esiste niente di assolutamente sicuro, il problema è stabilire un rischio accettabile. Il fatto è che il rischio che un bambino di Katmandu, in Nepal, muoia nel crollo della scuola per il terremoto è 400 volte superiore a quello che corre un bambino giapponese. E’ accettabile questo per i nepalesi o per noi dei paesi sviluppati? Gli ingegneri che vengono nei paesi in via di sviluppo rimangono impressionati: è pazzesco che la gente viva in quelle case e non si renda conto del rischio. E’ come veder correre un bambino con un coltello in mano! Per quella che è la mia esperienza con il terremoto, in quei paesi il problema fondamentale non è la mancanza di tecnologie, competenze o soldi: costruire edifici antisismici comporta un aumento di circa il 5% dei costi di costruzione. Noi di GHI non ci troviamo nella situazione delle organizzazioni che lottano contro l’AIDS nei paesi poveri e devono trovare cure complicate e, allo stesso tempo, alla loro portata, noi dobbiamo “far capire al malato che è malato”, cioé rendere consapevoli le comunità del fatto che il livello di rischio che corrono è inaccettabilmente alto, che questo rischio può essere gestito ed esistono soluzioni semplici e alla loro portata.

E come lavorate sul campo?

Lavoriamo in team di esperti locali e internazionali: ingegneri civili e strutturali, esperti di scienze della terra, della meccanica dei suoli, della salute pubblica e della pianificazione delle emergenze. Individuiamo le zone d’intervento, che devono essere ad alto rischio e interessate a lavorare con noi, facciamo una ricognizione, ci procuriamo le mappe della città, studiamo le proprietà del suolo, localizziamo le scuole e gli ospedali e cerchiamo di capire che tipo di organizzazioni esistono in loco per la gestione delle emergenze. Con questi dati, facciamo una stima del rischio, contattiamo le autorità locali per cercare di capire cosa intendono fare per ridurlo ed elaboriamo con loro un piano degli interventi e dei costi.

Qual è stato finora il vostro risultato più significativo?

Potenziare le organizzazioni locali che portano avanti materialmente i lavori, che non vengono mai fatti da noi. Se si pubblica un rapporto, rimane sullo scaffale, ma se si riesce a mettere in piedi un’organizzazione che lavora in una comunità a rischio, allora questo è qualcosa che rimane. Ad esempio, a Katmandu con un budget di 5.000 dollari, una delle organizzazioni locali, che abbiamo coinvolto, ha sistemato una scuola assicurandosi che i muratori del posto imparassero delle buone tecniche di costruzione. Formare quei muratori non è uno scherzo: parlano lingue diverse e dialetti, non sanno leggere, non si può mica scrivere un manuale in inglese o mandare una mail! Ebbene, dopo l’intervento a Katmandu, ci fu un terremoto nel Gujarat, in India: quei muratori ci andarono e ne addestrarono altri.

In GHI ci sono molte donne. Perché?

Ci sono teorie diverse: secondo alcuni, perché le donne sono particolarmente portate per lavori che comportano la solidarietà, secondo altri per un problema di soldi. GHI è un’organizzazione non governativa: non ci possiamo permettere stipendi alti, così, visto che spesso gli uomini si sentono in dovere di avere uno stipendio migliore possibile per mantenere la famiglia al meglio, un ingegnere o uno scienziato, che abbia l’expertise che serve a GHI, spesso non viene a lavorare da noi, anche perché in posti come la California ci sono ottime opportunità di carriera, sia nelle aziende private sia in università meravigliose come Stanford o Caltech.

Tornando alla ricerca scientifica e ingegneristica sul terremoto, sebbene il 90 % delle aree più a rischio si trovino nei paesi in via di sviluppo, questi paesi possono contare solo sul 10% delle risorse per la ricerca. Perché?

Se diamo uno sguardo alle conferenze internazionali o alle riviste, vediamo che la ricerca è trainata dalle cose importanti per il Giappone, gli Stati Uniti e l’Europa, quindi è lì che vanno i capitali. E nessuno diventa professore all’università di Tokio o di Roma perché ha scoperto come rendere fattibile la costruzione di capanne di fango antisismiche; nel mondo sviluppato si premia e si finanzia la ricerca più avanzata e questo tipo di ricerca non riguarda i problemi dei paesi poveri e spesso non può essere applicata ad essi.

E cosa fare allora?

Naturalmente sarebbe bene che i paesi ricchi aiutassero quelli poveri. Comunque, io capisco che i soldi delle tasse di un cittadino americano, europeo o giapponese devono essere spesi per cose rilevanti per quelle comunità, e che quindi venga finanziata la ricerca sulla risposta dei grattacieli o delle centrali nucleari al terremoto. Ma la cosa più tragica è vedere i ricercatori dei paesi poveri che fanno ricerca _ con i quattro soldi dei loro paesi_ sulla risposta delle centrali nucleari! Alcuni di quei paesi non sanno neppure cosa sono!

Perché succede?

Il potere della comunità scientifica internazionale fa sì che un ricercatore che voglia entrare nell’arena internazionale, si occuperà delle cose rilevanti per la comunità internazionale, anziché per quella in cui vive. Ma ovviamente, questo problema sarebbe risolvibile: il sistema delle pubblicazioni, delle nomine a professore, dei finanziamenti alla ricerca, ecc.. si fonda sul riconoscimento dei meriti da parte degli accademici stessi. Se quest’ultimi trattassero con rispetto e premiassero i ricercatori del terzo mondo che si occupano di problemi del terzo mondo, allora quei ricercatori probabilmente non si ritroverebbero a fare ricerca su problemi del primo mondo per essere presi in considerazione, rispettati e finanziati dalla comunità scientifica internazionale.

E lei, invece, perché dal primo mondo è andato nel terzo e nel quarto? Faceva ricerca in California.

Ho scelto di andare dove i miei studi e la mia esperienza potevano fare la differenza. Dopo la laurea, ho viaggiato in giro per il mondo e ho visto zone molto povere che avevano problemi ben più gravi col terremoto di quelli della California. E quando andavo alle conferenze internazionali con altri amici che avevano viaggiato, ci dicevamo quanto tutto quello fosse ridicolo: c’erano così tante persone in gamba che lavoravano sui problemi del mondo sviluppato! Sono passati alcuni anni, alla fine ho deciso di provare a fare quello che mi interessava veramente e mia moglie mi ha appoggiato. Era una decisione rischiosa: per fondare GHI, ho piantato un lavoro molto buono proprio due mesi prima che nascesse il nostro primo figlio.

In Europa, e soprattutto in Italia, ci sono tanti giovani scienziati che tirano avanti, senza la speranza di un lavoro serio o interessante. Consiglierebbe loro di fare come lei: piantare tutto e andare dove possono fare la differenza?

Io consiglierei ad un giovane di seguire il suo interesse profondo e autentico: se è fare la differenza nei paesi in via di sviluppo, vada in quei paesi, se invece è fare i soldi o sviluppare nuove tecnologie, che lo faccia. Bill Gates ha fatto cose meravigliose per il mondo, seguendo la propria passione. Consiglierei ad un giovane di seguire qualunque cosa lo tenga in piedi la notte, perché gran parte dei risultati che io ho ottenuto non sono dovuti al mio “genio”, ma al lavoro duro e alla mia motivazione.