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PAKISTAN. UN EX AGENTE CIA RACCONTA: ECCO I SEGRETI DELL’ATOMICA

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su Il Venerdì de La Repubblica, 16 Novembre 2007

Cè una domanda che tormenta i potenti di Washington mentre il Pakistan sprofonda nel caos: ce la farà l’esercito di Musharraf a non perdere il controllo dell’arsenale nucleare? Lo scenario è da Armageddon. L’idea che anche una sola atomica possa finire nelle mani dei fondamentalisti è terrore puro. Bush agita lo spettro della Terza guerra mondiale se l’Iran si doterà della bomba (ad oggi non ne ha neppure una), le sparate di Ahmadinejad sulle 3000 centrifughe fanno scoppiare il solito parapiglia, e le 60 atomiche del Pakistan, allora? Di certo, la corte dei miracoli che ruota intorno alla bomba pakistana è da brivido: l’esercito, l’intelligence militare, piena zeppa di simpatizzanti dei Talibani, personaggi inquietanti, tipo Sultan Bashir-ud-Din Mahmood. E infine lui: Abdul Qader Khan, il custode di verità indicibili. C’è un personaggio che conosce i segreti dell’atomica del Pakistan: Richard Barlow. Negli anni ’80 era un giovane e brillante analista CIA. La sua carriera prometteva il meglio. Vent’anni dopo, è un 52enne che ha perso tutto. Ha accettato di raccontare la sua storia al Venerdì.

“Ero l’unico analista CIA assegnato in modo permanente a sorvegliare i traffici di A. Q. Khan”, racconta Barlow con un sorriso nervoso, “e i miei guai cominciarono subito dopo l’arresto di Arshad Pervez, un intermediario di Khan. La CIA e il Dipartimento di Stato mi resero la vita impossibile, ma non andarono oltre. Gli uomini di Dick Cheney, invece, superarono ogni limite”. Abdul Qader Khan. Quanti saprebbero riconoscerne la faccia? Per George Tenet, capo della CIA dal ’97 al 2004, Khan è pericoloso “almeno quanto Bin Laden”. Per il Pakistan è un eroe nazionale. E’ lui che ha permesso al paese di mettere in piedi un programma nucleare clandestino e di arrivare all’atomica, nell’87. Povero, con un tasso di analfabetismo allucinante, negli anni ’80 il Pakistan non riusciva a produrre metalli di qualità sufficientemente buona neppure per gli aghi da sartoria, figuriamoci per un programma nucleare. Khan aveva studiato nelle migliori università europee e in Olanda aveva lavorato per una celebre azienda di arricchimento dell’uranio: l’ “Urenco”. Aveva contatti preziosissimi e sapeva quali erano le tecnologie e i materiali necessari per la bomba e chi li commercializzava. Mise in piedi una rete formidabile di insospettabili uomini d’affari che compravano da aziende europee e americane e, dopo mille transazioni, triangolazioni oscure e società di copertura, riuscivano a far arrivare la merce in Pakistan. Quando Barlow incappò in quell’intermediario di Khan, non lo sapeva ancora, ma a Washington, Khan aveva più amici di lui. Barlow fece ingabbiare l’uomo d’affari, ma l’arresto fece da detonatore alle tensioni tra chi, come lui, nella CIA si occupava di lotta alle armi di distruzione di massa e chi di quella al comunismo. Erano gli anni in cui il Pakistan supportava i mujahedin, che stavano facendo sputar sangue ai russi in Afghanistan: USA e Pakistan erano grandi alleati. Fiumi di dollari scorrevano da Washington a Islamabad, la CIA teneva il Congresso americano sistematicamente all’oscuro di quello che succedeva in Pakistan e Reagan continuava a certificare il falso, dichiarando che il paese non aveva armi nucleari, per non creare intoppi all’alleanza contro il comunismo. Barlow riuscì a mettere le mani sul “pesce piccolo”, l’intermediario, ma non su un militare pakistano che stava dietro di lui. “Personaggi di altissimo livello del nostro governo avvertirono il Pakistan”, racconta. Così l’arresto del pesce grosso saltò. E quando, durante un briefing, Barlow cercò di aprire gli occhi al Congresso, la misura fu colma: “fui trattato come un traditore”, racconta, “uno che boicottava la guerra in Afghanistan contro il comunismo. Alla fine dovetti lasciare”. Finì al Pentagono, a lavorare come analista per Dick Cheney, allora Segretario alla difesa. Ma anche lì durò poco: nell’89 gli ufficiali della Difesa arrivarono a testimoniare al Congresso che gli USA potevano vendere tranquillamente i caccia F-16 al Pakistan, perché quegli aerei potevano essere usati come bombardieri atomici solo se modificati con tecnologie al di fuori della portata del Pakistan. Era falso. E Barlow protestò con i superiori. Fu licenziato in tronco. Ma gli uomini di Cheney non si accontentarono di farlo fuori: puntarono a distruggerne la reputazione in modo da azzerarne la credibilità, così, se a quell’analista fosse di nuovo venuto in mente di provare ad aprire gli occhi al Congresso, nessuno l’avrebbe preso sul serio. Passarono al setaccio ogni aspetto della sua vita, alla ricerca di fatti compromettenti. Riuscirono perfino ad accedere alle informazioni sulla terapia di coppia tra lui e la moglie, anche lei agente CIA. “Usarono quella terapia per farmi passare da psicotico in trattamento psichiatrico”, racconta. Barlow perse tutto: lavoro, moglie. Da allora, lotta per ristabilire la verità, sommersa tra documenti top secret, rapporti falsificati e veti politici incrociati.

Oggi il Pakistan potrebbe avere 60 -100 ordigni nucleari. Musharraf è sempre un grande alleato degli USA, ieri per la Guerra fredda, oggi per quella al terrorismo, mentre i mujahedin, da migliori amici della CIA, sono diventati il diavolo in persona. Che l’atomica pakistana possa finire nelle mani dei fautori di Bin Laden è uno scenario tutt’altro che irrealistico. Poteva andare diversamente? O non c’era alternativa alla realpolitik della Guerra fredda? Barlow è convinto che ci fossero: “Potevamo fare la lotta al comunismo e allo stesso tempo quella alla proliferazione, bastava trattare diversamente col Pakistan”, insiste, “ora ci ritroviamo con la gravissima minaccia dell’arsenale di Musharraf e con il problema dell’Iran e della Corea del Nord”. E sì, perché la rete di Khan non si limitò a far arrivare la tecnologia nucleare al Pakistan, ma la passò all’Iran e alla Corea. “Perché gli Stati Uniti non hanno fermato Khan prima che vendesse i segreti delle centrifughe P-1 e P- 2 all’Iran?”, chiediamo infine a Barlow. L’ex capo della CIA Tenet ha detto: “Eravamo dentro casa sua, dentro i suoi laboratori, dentro il suo salotto”. “Perché allora non fermarlo prima che il danno con l’Iran fosse fatto?”, lo incalziamo. “Questa è una domanda importante”, risponde enigmatico Barlow, “E’ stato deciso così: se Khan non è stato fermato, non è perché non sapevamo o non potevamo”. L’ex golden boy della CIA ci lascia con le nostre domande senza risposte: che segreti potrebbe rivelare Khan, che dal 2004 è agli arresti domiciliari a Islamabad, inaccessibile a tutti? Perché nel 2005 gli USA si sono rifiutati di collaborare con la magistratura svizzera, che indaga su tre personaggi di spicco della rete? Quante aziende insospettabili, spie e rispettati diplomatici tiene ancora in mano A. Q. Khan?