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COSÌ L’ITALIA ARMA TEHERAN

Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi

Pubblicato su L’Espresso, 25 ottobre 2007

L’arma più micidiale della prossima guerra del Golfo è nata sul lago di Como, non lontano dalle ville dei divi di Hollywood. Non è una bom­ba atomica, né un missile intercontinenta­le: è una barca ad alta tecnologia, lunga 16 metri e veloce come un fulmine. Sul mare non la batte nessuno, corre e salta senza te­mere rivali: è stata progettata per conto della Finanza e ha sempre umiliato gli sca­fi blu dei contrabbandieri. Un bolide da 70 nodi l'ora. I Guardiani della rivoluzione, il braccio armato della teocrazia iraniana, ne hanno capito subito le potenzialità: uno sciame di 20 o più Levriero, questo il nome delle fuoriserie nautiche, con piloti vo­tati al martirio può mandare in tilt le difese della flotta statunitense. Per questo gli emissari di Teheran nel 1998 si sono pre­sentati nello stabilimento della Fb design e i hanno comprato tutto: disegni, prototipi, i materiali e quanto serviva per produrre in patria l'intero catalogo di super-battelli da record con la carena. Così i pasdaran sono diventati l'armata più veloce del Golfo, con centinaia di superbattelli per sbarrare la rotta del petrolio.

Quella delle piccole motovedette lombar­de è solo una delle tante storie che spun­tano dal lato oscuro dei rapporti tra Italia e Iran. Come le processioni dei camion Iveco trasformati in rampe per missili proibiti. Come le centinaia di propulsori Isotta Fraschini, l'aristocrazia dei pistoni, che spingono la flotta della milizia più in­tegralista. Come i pezzi di ricambio per elicotteri Agusta e cannoni Oto che per decenni sono continuati ad arrivare nella Repubblica islamica: le due aziende ave­vano prenotato stand anche nell'ultima fiera aerospaziale di Kish, vetrina dello shopping bellico iraniano. O come le ton­nellate di componenti per progetti nu­cleari e missilistici uscite dai capannoni di fabbriche padane. Tutto alla luce del so­le: persine il Cnr finanziava ricerche con­giunte per inventare diesel futuristici con gli atenei di Teheran. Poi dalla caduta di Saddam Hussein il clima è peggiorato: gli americani hanno co­minciato a fare pressioni sul governo Berlusconi perché le forniture più pericolose cessassero. Nel 2005 su richiesta di Wa­shington l'ultimo dei superscafi Levriero messo a punto sul lago di Como è stato bloccato: doveva combattere con i Guar­diani islamici, è finito nei ranghi della Guardia di Finanza nostrana. Non senza che a Teheran si irritassero, incassando su­bito la ricca fidejussione depositata dal cantiere come garanzia: perché l'Iran è un cliente ricco, a cui le banche nazionali non vogliono creare fastidi. E non solo loro. Il "dirottamento" del Levriero è stato tenu­to segreto dalle autorità per non disturba­re il grande business: un interscambio da 5.179 milioni di euro nel 2005, saliti l'an­no scorso a 5.718. Un tesoro che spesso cancella gli scrupoli.

Ora che i tamburi di guerra nel Golfo so­no sempre più forti e che le Nazioni unite si preparano a discutere un vero embargo, quei gioielli made in Italy nei video della propaganda iraniana cominciano a creare qualche imbarazzo. Come il logo Iveco su decine di semoventi lanciamissile fatti sfilare davanti al palco di Ahmadinejah per celebrare la rivoluzione islamica. Dal 1995 la casa torinese ha esportato di­verse migliaia di camion in Iran: in parte direttamente, in parte come kit assembla­ti dalla Zamyad in Iran. Sono tutti veicoli civili, robusti e potenti: nessuno sa dire quanti siano stati rivenduti dallo stabili­mento locale alle brigate dei pasdaran. Tecnici iraniani vi hanno poi installato rampe d'origine sovietica e nuovi missili di produzione nazionale. Quelli nella foto a pagina 54 possono col­pire a una distanza di 200 chilometri e c'è il sospetto che li abbiano regalati an­che agli hezbollah libane­si: basta un telone per oc­cultare l'arma e confonde­re l'Iveco truck nel traffi­co caotico di tir sulle stra­de del Medioriente. Me­tamorfosi simili avrebbe­ro reso i veicoli del grup­po Fiat piattaforme per i missili antinave comprati in Cina e in Corea del Nord. Anche il peso mas­simo Trakker Mp720, un bestione a sei ruote mo­trici, sarebbe stato usato per lanciare or­digni balistici a lungo raggio, i famigera­ti Shahab che possono attaccare Israele. E che un giorno, se il programma atomi­co di Teheran dovesse avere esiti bellici, potrebbero caricare testate nucleari. Tut­to sempre sotto le bandiere dei Guardia­ni della rivoluzione.

Fino al 2005 gli interventi per ostacolare le vendite di prodotti italiani con potenzia­li usi militari sono stati scarsi. Tutto è cam­biato con la vittoria di Ahmadinejah e le sue dichiarazioni sempre più radicali. La pressione statunitense ha costretto anche Roma a muoversi. Cercando di mettere il silenziatore ai divieti per evitare attriti con gli ayatollah. Così, all'inizio del 2006 il go­verno Berlusconi ha fatto sapere all’Isotta Fraschini che le attività con l'Iran non «erano più opportune». L'azienda statale del gruppo Fincantieri aveva già consegna­to 210 motori alla Marine Industries, dit­ta con un indirizzo eloquente: Pasdaran avenue. La società adesso è finita nella li­sta nera dell'Onu: costruisce i mezzi nava­li d'assalto per i commandos iraniani. No­nostante non fosse obbligata a farlo, l'Isotta Fraschini aveva sempre comunicato ai ministeri ogni dettaglio degli accordi con Teheran: la seconda commessa da 23 mi­lioni di euro prevedeva ben 250 propulso­ri, destinati a far correre un altro centina­io di scafi super-veloci. Un'arma strategica per la guerra asimmetrica degli ayatollah. Tanto che gli americani si sono infuriati. E così Palazzo Chigi nella massima riserva­tezza ha fatto stracciare il contratto. Un duro colpo per i Guardiani della rivoluzio­ne. Ma anche per gli operai della fabbrica barese che rischiano la disoccupazione. Una delle centrali meno insospettabili del programma bellico iraniano era in via Barberini, nel cuore di Roma. Quasi tutto lo shopping europeo destinato agli arsenali dei pasdaran ha fatto riferimento a quella filiale della Sepah Bank. L'ultimo caso è del Natale 2006: quando le Nazioni unite hanno congelato i conti della Shig, l'azien­da iraniana che costruisce i missili inter­continentali, il programma è andato avanti con il sostegno della banca ro­mana. Lettere di credito sono state emesse per comprare appa­recchi speciali in Germania at­traverso società di copertura. Anche i superscafi lariani sono stati pagati tramite la Sepah. Il dossier sull'istituto è monumen­tale. Da Washington il sottose­gretario del Tesoro Stuart Levey ha accusato l'istituto iraniano di avere finanziato i piani segreti delle forze armate: la filiale ro­mana dal 2000 in poi avrebbe avuto un ruolo determinate nei contratti per le fabbriche di mis­sili. Dopo l’ Onu e gli Usa si è mossa anche Bankitalia. Un'ispezione nei locali di via Barberini ha fatto emergere anomalie tali da disporre il com­missariamento, decretato il 30 marzo scor­so. Cosa hanno trovato gli ispettori di Dra­ghi? Top secret.

Da allora per gli emissari di Teheran la ri­cerca di materiali in Europa si è fatta più difficile. Ma aggirare l'embargo non è un problema. Basta una società di comodo in Dubai o negli Emirati. Come è accaduto per i pezzi di ricambio degli elicotteri Agu­sta, velivoli acquistati ai tempi dello scià e rimasti efficienti in barba alle sanzioni. E se gli iraniani non riusciranno a comprare, allora copieranno. Nei lunghi anni della guerra con l'Iraq sono diventati maestri della riproduzione. L'ultimo colpo, mostrato con orgoglio dalla tv di Stato, è la clonazione di due apparati della Oto Melara: un missile antinave, chiamato Sea Killer, e il più famoso cannone a tiro rapi­do, il 76/62 il bestseller delle artiglierie venduto in centinaia di esemplari dalla fabbri­ca spezzina alle flotte di tutto il mondo. Quello che gli ingegneri di Teheran non sanno riprodurre sono i macchinari e i me­talli speciali per i programmi nucleari e missilistici: tecnologia dual-use, che può servire per le tradizionali centrali elettriche o per le centrifughe che arricchiscono l'uranio. Su questo fronte i controlli in Ita­lia sono scarsi: pochi uomini, ancora meno mezzi, scarsa intelligence (vedi box ‘Traffici senza controlli’). Tutto sembra affidato al caso. O alla lotta contro l'evasione fiscale e con­tro il riciclaggio: come "L'espresso" è in grado di rivelare, l'ultima pista ha un'ori­gine bancaria. Sui conti di una signora di un paesino alle porte di Udine sono comin­ciati ad arrivare bonifici da oltre 100 mila euro provenienti da Iran ed Emirati. Un'anomalia che ha fatto scattare le Fiam­me Gialle di Udine: la donna lavora in una fabbrica, la Lup snc, che sforna compo­nenti siderurgici d'alta qualità per clienti prestigiosi come Enel e Danieli. Le sue spie­gazioni, poi, hanno solo aumentato i dub­bi: «Ho fatto un piacere a un iraniano co­nosciuto a una fiera in Germania. Voleva investire in Italia e mi ha chiesto la corte­sia di fargli mandare dei soldi sul mio con­to». I finanzieri non le hanno creduto: è finita sotto inchiesta assieme ai soci amministratori della Lup per violazione delle leggi antiriciclaggio. Spiega uno degli investiga­tori: «Sono flussi finanziari anomali, le operazioni sembrerebbero fatte in modo da oscurare chi c'è dietro». Ora gli inqui­renti stanno cercando di risalire alle ban­che coinvolte nelle transazioni per decifra­re la natura della ditta di Teheran con cui la Lup ha rapporti commerciali: è l'unica pista per capire che tipo di merci potrebbe­ro essere state spedite. I container infatti hanno preso il volo da tempo: è pratica­mente impossibile stabilire se contenesse­ro materiali proibiti o meno. Più chiaro invece il quadro dell'indagine sul GFM Group di Bonate di Sopra (Ber­gamo): esperti nella produzione di metalli e componenti speciali per centrali elettriche che rifornisce anche l'Ansaldo. Nel­l'aprile scorso, i doganieri di Ponte Chias­so si sono insospettiti per un carico di mas­sicci tubi lunghi oltre un metro, dalla forma irregolare: nei docu­menti erano indicati come "carpenteria metallica". La GFM li ha acquistati dalla Metal Wreck Engi­neering di Baar (Svizzera). Stranamente, però, qual­che giorno prima nella stes­sa dogana era transitato un carico identico, che usciva dall'Italia per andare verso la Svizzera: a esportarlo era la Green Power Technolo­gy di Potenza e destinatario della merce era tal Global International Service. Quando le dogane comin­ciano i primi accertamenti, le perplessità aumentano: una delle società risulta inesi­stente, le altre sono legate da intrecci inso­liti e soprattutto la merce non è banale car­penteria metallica. Tutt'altro. «È una su­perlega al 50 per cento nickel, 20 per cen­to cromo e altri materiali come cobalto e manganese», spiega la dottoressa Otello del laboratorio chimico delle dogane di Ve­nezia, che l'ha analizzata. Resiste a tempe­rature e pressioni altissime e a fluidi estre­mamente corrosivi: serve per le turbine delle centrali termoelettriche, ma anche nell'industria aerospaziale e in quella mis­silistica e nucleare. «Queste leghe rientra­no nel regolamento sul materiale dual-use», precisa.

Un copione visto troppe volte. A dicembre "L'espresso" ha rivelato la storia di una fabbrica di Modena, finita al centro di un giallo internazionale per tubi di metallo speciale venduti alla Turchia e intercettati alla frontiera iraniana. Anche in questo caso potevano servire per costruire missi­li o forse persine centrifughe per l'uranio. L'inchiesta penale è stata archiviata per l'impossibilità di provare la natura della mercanzia. Insomma: l'impunità è quasi garantita.

Anche le super-barche Levriero, esportate nel pieno rispetto delle leggi, avevano una doppia vita. Basta confrontare i siti web delle due aziende: in quello italiano (www.fbdesign.it) gli scafi sono disarmati; in quello del colosso bellico Dio, acronimo per Defense industries organization che li produce su licenza (www.diomil.ir), com­paiono dotati di missili, mitragliere e, cosa più pericolosa, mine navali. I pasdaran hanno colmato i loro arsenali con 5 mila trappole esplosive marine. E qui la vicen­da si fa paradossale: chi mette le mine e chi le deve disinnescare usa la stessa tecnolo­gia italiana. Scafi in kevlar e motori Isotta Fraschini. Gli stessi dei dragamine com­prati nel nostro Paese dalla Us Navy proprio dopo i danni subiti nel Golfo a causa degli ordigni iraniani. E gli stessi delle piccole motovedette lombarde con cui i pasdaran potrebbero seminare mine nei passaggi obbligati delle petroliere, mettendo in crisi l'economia mondiale.

Sarà anche l'azienda nel cuore della famiglia Bush, ma l'Iran piace alla Halliburton. Così la società, che ha avuto tra i suoi massimi dirigenti il vicepresidente Usa Dick Cheney, continua a fare affari a Teheran, in compagnia di una trentina di colossi statunitensi che riescono ad aggirare le sanzioni di Washington contro gli ayatollah. E mentre la Casa Bianca chiede una linea dura ai partner europei, Halliburton e le altre aumentano i loro fatturati. Della questione si è discusso durante un'audizione al Congresso dedicata a "Halliburton e le relazioni d'affari americane con l'Iran": mentre l'assedio commerciale a Cuba e alla Nord Corea è molto rigido, quello per il Golfo Persico ha più di una falla. «La legge che impedisce alle aziende americane di fare affari con o nei paesi identificati come sponsor del terrorismo», ha confermato durante l'audizione al Congresso William C. Thompson Jr., «non si applica alle sussidiarie estere o offshore, purché non siano controllate da americani. Ma questo buco è stato sfruttato dalle aziende». E sì, perché la Halliburton, non potendo operare direttamente in Iran, lo ha fatto attraverso la "Halliburton Products and Services, Ltd", con sede nelle isole Cayman, che nel febbraio 2000, durante la reggenza di Dick Cheney, ha aperto un ufficio a Teheran. Poi, quando nel 2005 è scoppiato il caso, Halliburton e le altre companies hanno preso le distanze, annunciando che avrebbero sospeso tutte le attività in Iran. «Una dichiarazione interessante», fa notare maliziosamente Victor Comras, che ha monitorato per l'Onu le sanzioni contro Al Qaeda, «perché queste multinazionali hanno sempre dichiarato di non esercitare alcun potere sulle sussidiarie estere». Comunque, almeno fino al 30 aprile del 2007, Halliburton operava ancora in Iran.

Sanzioni senza sanzioni. Non è un gioco di parole: l'Italia non ha ancora approvato norme specifiche per punire chi viola le sanzioni Onu contro l'Iran. «Ho passato una giornata a leggere i documenti ufficiali», racconta a "L'espresso" un finanziere impegnato nell'indagine su un caso di export sospetto, «e non ho trovato una sola riga sulle penalità da applicare. Ricordo le sanzioni alla Serbia di Milosevic: allora le regole erano chiare e mi sono trovato a colpire imprenditori che esportavano pantofole in Serbia. Oggi l'Iran è sospettato di volere l'atomica, che tipo di strumenti abbiamo per colpire chi viola le regole?». Da Roma, le autorità competenti per l'embargo, ossia il ministeri degli Esteri, dell'Economia e del Commercio Internazionale, replicano: ci sono ben due decreti legislativi. Il guaio è che nessuno informa i controllori. Che faticano a garantire anche un minimo di sorveglianza. Solo nel 2006 l'Italia ha esportato in Iran macchine per impieghi speciali e apparati per la produzione di energia che valevano un miliardo di euro: quanti sono stati sottoposti ad accertamenti?

A lezione da Clooney

Sono gli uomini del mistero. Dietro l’acronimo NEST si nasconde una delle squadre più segrete del mondo. Perché il Nuclear Emergency Support Team statunitense prima di agire, deve poter studiare senza venire scoperto. L’unica cronaca delle loro attività è quella romanzata nel film “The Pacemaker”, con George Clooney nei panni del colonnello e di Nicole Kidman in quelli di una scienziata. E chi meglio dei ‘peacemaker’ poteva fare lezione ai doganieri italiani, impegnati ogni giorno a distinguere tra carichi normali e apparati dual-use? Così un anno fa il Sismi si è rivolto alla NNSA: la National Nuclear Security Administration, la grande agenzia americana che controlla la sicurezza nucleare e gestisce il Nest. Nel settembre 2006 un team venuto dagli States ha fatto lezione a un gruppo selezionato di doganieri. Perché riconoscere tecnologie dual-use utilizzabili in un programma nucleare clandestino è estremamente difficile e le teorie di un laureato in fisica passano in secondo piano. “Serve qualcuno che su queste faccende ci ha messo le mani”, spiega un ispettore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dell’ONU (AIEA). “Servono competenze molto specifiche sugli impianti e sulle armi nucleari”. Che nel nostro paese, dove da anni sono state smantellate le centrali, non ci sono. Il corso è stato un primo passo: peccato che manchino ancora strumenti più preziosi. A partire dal cd creato dagli americani con tutte le informazioni per individuare i componenti sospetti.