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DA MODENA A TEHERAN

Alluminio ad alta resistenza fornito dall'Italia e girato all'Iran. La legge lo vieta, serve per il settore nucleare. Ma i magistrati archiviano senza perquisizioni, né rogatorie. Perché? «L'azienda era in buona fede»

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su L’Espresso, 28 Dicembre 2006

Si può esportare materiale dual-use in un Paese accusato di volere costruire la bomba atomica senza correre rischi? In Italia sì. In Italia è possibile vendere all'Iran leghe speciali che richiederebbero un'autorizzazione ministeriale e non subire nessuna sanzione. Si possono cedere metalli ad alta resistenza, utili anche per missili intercontinentali e centrifughe nucleari, e non pagare nemmeno una multa. Perché queste sono le conclusioni della magistratura di Modena alla fine dell'inchiesta sulla Commerciale Fond, l'azienda emiliana che per quattro volte dal 2002 ha venduto alluminio "a doppio uso" alla Step della famiglia Jafari: materiale che potrebbe essere finito tutto a Teheran, salvo l'ultimo container sequestrato alla dogana turco-iraniana di Gurbuluk.

Un anno fa, quando dalla Turchia è arrivata la notizia del sequestro e il primo rapporto sugli intrighi italiani dei procacciatori di Teheran si mosse persino il Sismi. I massimi responsabili dell'intelligence nella lotta al traffico di apparati strategici si presentarono nella Procura di Modena e negli uffici della fabbrichetta sotto accusa. Poi invece gli accertamenti sono stati affidati al personale delle Dogane: una squadra con pochi mezzi investigativi. Mentre la Procura non ordina nessuna perquisizione, nessuna rogatoria, nessuna perizia tecnica sul materiale sequestrato in Turchia. I reparti specializzati di carabinieri e Fiamme Gialle che in genere indagano su queste trame non sono nemmeno stati interpellati. Eppure la vicenda era a dir poco inquietante. Perché quando i tecnici dell'Agenzia turca per l'energia atomica hanno esaminato le barre provenienti dall'Italia si sono pronunciati senza dubbi: quello che stava finendo in Iran è alluminio T6-7075. Ossia materiale dual-use, esportabile al di fuori dell'Europa solo dietro licenza.

Alla stampa locale, poi, un anonimo esperto dell'Agenzia turca indica quel carico di T6-7075 come un potenziale componente per le centrifughe destinate ad arricchire l'uranio: elementi fondamentali per costruire la bomba. «Le parti rotanti delle centrifughe P-1 sono tubi di alluminio T6-7075 di dimensioni determinate», spiega a "L'espresso" l'ex ispettore dell'Onu David Albright, aggiungendo che i cilindri di questo tipo di alluminio possono servire per costruire un elemento delle centrifughe chiamato "end caps".

Trovare T6 sul mercato non è difficile: l'azienda di Modena l'aveva in magazzino «per rifornire l'indotto Ferrari». Ma è un materiale sotto stretto controllo: tutti i paesi membri del Nuclear Suppliers Group applicano restrizioni all'esportazione proprio perché ha impieghi nel campo nucleare. In Italia chi le viola rischia almeno due anni di carcere. Qualunque azienda che voglia vendere al di fuori dell'Unione europea tubi e cilindri di T6 deve chiedere un permesso all'autorità nazionale che vigila sul dual-use: la Direzione generale del ministero del Commercio estero. Dove un funzionario ci spiega: « Noi valutiamo in che paese l'azienda intenda esportare il bene dual-use, valutiamo il tipo di prodotto e soprattutto chi sarà l'utilizzatore finale. Poi decidiamo se concedere o meno l'autorizzazione, avvalendoci della consulenza di tecnici nucleari, chimici. Molte aziende, però, non sanno nemmeno di produrre beni dual-use». È quello che hanno sostenuto i dirigenti della Commerciale Fond. Si sono presentati davanti al pm Pasquale Mazzei fornendo i documenti dei contratti con la Step: in tre anni quattro spedizioni. Totale: 6 tonnellate per un importo fatturato di 30 mila euro. «Ma siamo in buona fede, ignoravamo di dovere chiedere autorizzazioni», hanno dichiarato. Il sostituto procuratore gli ha dato ragione, chiedendo di archiviare le accuse penali. Perché? Scrive il magistrato: «Non c'è azione volontaria: non conoscevano la normativa, l'importo è modesto, c'è carenza di elementi indiziari ulteriori». Il gip accoglie questa impostazione con un modulo prestampato: tutto archiviato un mese fa. Tanto, bisogna aggiungere, il reato penale sarebbe stato cancellato dall'indulto.

Sorprende però quella "carenza di elementi indiziari ulteriori". Le prove sono state cercate? E qual è stato il ruolo del Sismi in questo intrigo internazionale? All'inizio gli 007 si sono scatenati, poi sono scomparsi. «È tutto in mano al generale Gruner», avevano risposto dall'Agenzia delle Dogane alla nostra richiesta di parlare col dottor Antonio Fusco, il funzionario di Modena che ha condotto le indagini per conto della magistratura. Un maresciallo del Sismi si è presentato nella sede dell'azienda modenese: senza mostrare tesserini ha chiesto di esaminare i contratti turco-iraniani. «Tenetemi informato su eventuali altre commesse di T-6», ha ordinato fornendo solo un indirizzo e-mail di quelli che si scaricano da Internet.

Il misterioso maresciallo ha poi dato indicazioni, sempre via e-mail, per frenare le ulteriori richieste di alluminio speciale ricevute dalla ditta all'indomani del sequestro turco. Anche lui, però, non contribuisce alle indagini. Ricorda un'altra fonte: «Arrivarono a Modena due pezzi grossi dell'intelligence, un civile e un militare, il civile era il capo della sezione contro-proliferazione del Sismi e il militare era, credo, un generale della Finanza. I due dissero che avevano la possibilità di recuperare il materiale sequestrato in Turchia e chiesero agli inquirenti se potevano essere interessati». Ovviamente, ci assicura la fonte, gli inquirenti erano interessati. «Ma per attivare una rogatoria internazionale e recuperare il metallo, occorreva una comunicazione ufficiale e invece, dopo la prima visita, gli uomini del Sismi si dileguarono: spariti completamente». Nessun sequestro, nessuna perizia.

Le indagini della Procura si sono basate su fatture, bolle doganali ed email fornite dall'azienda: tutte carte in cui la descrizione delle barre di alluminio è riportata in modo a dir poco sommario. Nelle pratiche presentate alla dogana, per esempio, si omettono le caratteristiche speciali T6 del metallo. Ma senza perizia non si riesce ad avere indicazioni sull'impiego finale del metallo. «Per capirlo», spiega a "L'espresso" un esperto che ha condotto ispezioni per conto dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), «serve una descrizione accurata del materiale sequestrato. Ma sulla base dei dati disponibili, mi sembra più probabile che venga usato nel settore missilistico». "L'espresso" ha poi sottoposto gli elementi tecnici raccolti dalla magistratura di Modena a un analista internazionale. Che ha concluso: queste informazioni non bastano per ricostruire l'impiego finale. «Il materiale potrebbe servire per tanti usi aeronautici, militari o civili. I diametri sembrano troppo grandi per coincidere con i primi modelli di centrifughe inglesi, olandesi, pachistane o russe», tutti modelli che, si presume, gli iraniani potrebbero aver copiato o ottenuto clandestinamente.

Di sicuro, a Teheran c'è fame di T6: è indispensabile per costruire i nuovi missili intercontinentali, il vanto dell'arsenale della repubblica islamica che vuole annientare Israele. Ma è anche fondamentale per arrivare all'atomica. Alle delegazioni internazionali il governo Ahrnadinejad ha dichiarato di non avere bisogno di importare il T6: «Lo produciamo in patria». Ma Albright è scettico su questa affermazione. È possibile che l'Iran stia comprando in Italia e in Europa alluminio speciale per il programma di centrifughe nucleari? «E senz'altro possibile», dice l'ex ispettore Onu a "L'espresso". Acquistare barre grezze permette più facilmente di superare i controlli: tubi e dischi già tagliati possono essere identificati. La magia del dual-use si dissolverebbe, lasciando solo l'ipotesi dell'utilizzo atomico. Ed esponendo venditori e broker a rischi alti. Invece con le barre, come dimostra il caso di Modena, non ci sono pericoli legali. Anche quando il carico viene spedito a un'azienda fantasma. L'alluminio venduto dalla Fond alla ditta della famiglia Jafari era destinato alla Shadi Oil Industries di Teheran. Il nome sembra indicare una compagnia del settore petrolifero, ma nessuno degli operatori specializzati l'ha mai sentita nominare e non compare nei database disponibili nella capitale iraniana. A quanto risulta a "L'espresso", all'indirizzo della Shadi Oil c'è soltanto un negozio di alimentari. Dunque Shadi, che in farsi significa "felicità", è probabilmente una compagnia di facciata: a Teheran il metallo partito da Modena avrebbe fatto di sicuro la felicità di qualcuno. Ma il nome non è negli atti dell'inchiesta penale e non ci sarà mai. Perché per la legge italiana basta la buona fede. E anche il più diabolico dei componenti dual-use diventa candido.