Home page Inchieste

IRAN LA PISTA ATOMICA

Metalli speciali e sistemi elettronici. Che servono in campo nucleare e missilistico. Prodotti in Italia, nel resto d'Europa e persino negli Usa. Così le tecnologie proibite arrivano a Teheran senza controllo

di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi

Pubblicato su L’Espresso, 28 Dicembre 2006

Una fabbrichetta emiliana che commercia in metalli; un'affermata ditta nella periferia di Parigi. Ma anche la succursale magiara di un colosso Usa e la filiale olandese di una multinazionale. Tutti dedicati a raccogliere affari in patria e all'estero, tutti a loro insaputa coinvolti nella rete che cerca di costruire la più grande minaccia alla pace mondiale: il programma bellico del presidente Ahmadinejad. Sì, gli ingranaggi per la macchina di morte iraniana vengono dall'Occidente: da Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Canada, ma anche dall'Italia e persino dagli Stati Uniti.

Piccoli contratti, importi limitati e alto valore strategico: tante gocce che passano attraverso le frontiere e alimentano i sogni nucleari e missilistici di Teheran. La catena di aziende non si occupa di forniture militari: produce manufatti che hanno quasi esclusivamente usi civili ma che in alcuni casi possono diventare determinanti per sperimentare e assemblare armi di distruzione di massa. In cattive mani le barre di alluminio speciale che servono per la scocca delle Ferrari si trasformano in componenti delle centrifughe che "arricchiscono" l'uranio. O i cuscinetti a sfera venduti per fare la tac negli ospedali diventano congegni per migliorare il tiro di un missile intercontinentale.

La formula magica degli alchimisti dell'apocalisse è tutta in due parole e un trattino: "Dual-use". Doppio uso, appunto: pezzi innocui fino al momento in cui diventano parte di un sistema bellico. Il dual-use è la grande falla. Fa sfuggire dai confini di Europa e Stati Uniti elementi preziosi per la corsa agli arsenali di sterminio. È questa la tecnologia che ha permesso a Saddam Hussein di fabbricare gli ordigni chimici per massacrare i curdi; quella che ha consegnato a Gheddafi la capacità di distillare gas tossici; quella che ha permesso al misterioso fisico pachistano Khan di lavorare indisturbato per anni all'atomica. Ora un'inchiesta condotta dalle autorità turche mostra come anche l'Iran che invoca l'annientamento di Israele si stia abbeverando alla stessa sorgente di materiali dalla doppia vita. Con una grande triangolazione che "L'espresso" è in grado di ricostruire.

Tutto nasce in Turchia. Ma parte da molto lontano. E finisce sempre a Teheran. Come spesso accade, la prima scintilla viene dagli Usa: ufficialmente l'allarme porta la firma degli investigatori doganali, in realtà l'informazione arriva dritta dritta dal quartiere generale della Cia. Nel mirino c'è l'Alcoa, il colosso mondiale dell'alluminio con capitale a Pittsburgh. Che segnala ad Ankara: «Le nostre filiali magiara e russa stanno vendendo metalli a una società turca amministrata da cittadini iraniani. Sospettiamo che, contrariamente alle dichiarazioni, questi materiali poi finiscano a Teheran».

In Turchia la segnalazione viene presa molto sul serio. Nel segreto vengono avviate le indagini: formalmente l'inchiesta è condotta dall'ufficio delle dogane, ma ad investigare è la brigata speciale della polizia antidroga. L'azienda indicata nel documento americano si chiama Step Standard e appartiene alla famiglia Jafari, iraniani che fanno la spola tra Turchia e repubblica islamica. Gente con buone disponibilità economiche, attiva nei cinque continenti e che in fatto di documentazione doganale sembra saperne una più del diavolo. I fratelli Jafari e il loro padre comprano di tutto, per poi mandarlo in Iran. Violando più di una norma. Quando le autorità turche fanno scattare i controlli, evidenziano subito una serie di operazioni misteriose: materiali dual-use importati per venire utilizzati in Turchia, un paese della Nato che quindi non genera sospetti, e invece fatti arrivare nella capitale iraniana.

Nella lista nera dell'export sotto inchiesta ci sono pezzi arrivati dall'Unione europea, dal Canada e dagli Stati Uniti. Si tratta di forniture di alluminio ad alta resistenza, di equipaggiamenti per test elettronici, di componenti che possono servire per guidare i missili a lungo raggio o elaborare esplosivi. Tutti materiali che al momento del blitz turco hanno già preso il volo. Solo nella dogana di Gurbulak si riesce a fermare un container con dei grandi cilindri di metallo. Nei documenti sono indicati come alluminio standard, invece hanno subito una lavorazione speciale per impieghi particolari. La Step li ha acquistati da una ditta di Modena per venderli a una società petrolifera di Teheran chiamata Shadi Oil. Una sigla che secondo gli esperti petroliferi interpellati da "L'espresso" non esiste: all'indirizzo della Shadi Oil c'è soltanto un negozio di alimentari.

I tecnici dell'Ente turco per l'energia atomica hanno esaminato le barre di alluminio. Nel rapporto ufficiale scrivono: «È T6, un materiale dual use incluso nella lista del Nuclear Suppliers Group», ossia un elenco di prodotti "sorvegliati speciali" perché utili nel campo nucleare. Per commerciarli è necessaria una serie di autorizzazioni ministeriali, che non sono mai state richieste. Né in Italia, né in Turchia.

Ancora più inquietante è la vicenda dei cuscinetti a sfera arrivati dalia Francia via Italia. Li produce l'Adr, uno stabilimento a 60 chilometri da Parigi specializzato in "strumenti di precisione per l'industria aeronautica, spaziale, militare e medica". L'acquisto è stato effettuato dalla solita famiglia Jafari, ma invece di contattare direttamente la fabbrica francese, si sono rivolti alla Frusca attrezzature industriali di Milano. La Frusca rispetta le regole e scrive ai mediatori turco-iraniani: «Se i pezzi servono per dei giroscopi, allora è necessario un certificato che indichi chi sarà l’utilizzatore finale». Anche la Adr ribadisce: «Queste componenti possono servire per scopi militari: è necessaria una dichiarazione dell'acquirente turco sull'uso civile e l'impegno a non rivenderli». Nessun problema: dalla Step di Istanbul arrivano i documenti richiesti. I 250 pezzi arrivano in Turchia e ripartono subito per l'Iran. Tutto in regola? No. Sorpresa: lungo la strada le carte cambiano. E quelli che erano usciti dalla Francia come "cuscinetti a sfera per uso civile" per un valore di 27.300 euro diventano "cuscinetti a sfera per giroscopi" con un prezzo di 56.300.

Gli investigatori di Ankara scoprono che rispetto alla copia dei certificati mandati a Parigi in Francia è stato aggiunto con caratteri diversi "beni destinati all'Iran". Roba da Totò e Peppino, che però sortisce risultati da guerre stellari. I giroscopi infatti sono elementi decisivi per il sistema di guida dei missili a lunghissimo raggio. Senza giroscopi modelli come lo Shahab 3 e l’ancor più potente modello 4 che Teheran sta sperimentando possono sbagliare bersaglio di decine di chilometri: un apparato del genere invece può pilotarli fino a poche decine di metri dal bersaglio dopo un volo di 2 mila chilometri.

Ma a leggere il dossier dell'inchiesta di Ankara il gioco dei certificati ritoccati è stato ripetuto parecchie volte: 17 solo nel 2005. Gli agenti turchi nella sede della Step hanno trovato un foglietto bianco con un timbro: è il timbro che serve proprio per questi documenti. Sì, il sospetto degli inquirenti è che alla Step disponessero di un timbro contraffatto, che era stato provato sul pez-zetto di carta prima di metterlo sotto uno dei certificati fasulli. Trucchi da "I soliti ignoti" per contrabbandare tecnologia da distruzione totale.

Ma setacciando la contabilità della Step i sospetti si sono moltiplicati. Sono finiti sotto esame contratti con la Fluke Company, la filiale olandese della multinazionale specializzata nei sistemi per test elettronici. Altre commesse provengono dalla Flowserve britannica, che fornisce pompe e ogni genere di valvole per l'industria petrolifera e per le centrali nucleari. Il percorso dei prodotti della Flowserve va dall'Olanda a Istanbul e da lì viene girato alla Carvana di Teheran. Ma chi è l'agente della Carvana? "L'espresso" ha scoperto che si tratta di Mohammed Javad Jafari, il patriarca della Step. Non è una coincidenza, ma un tassello decisivo. Che chiude il cerchio. Nell'ottobre 2005, all'indomani del sequestro in Turchia delle barre di alluminio speciale, l'azienda di Modena che le aveva vendute alla Step viene contattata da una società iraniana che cerca lo stesso tipo di metallo. Il nome? Carvana, appunto. Un'altra sigla, gli stessi acquirenti: sempre la famiglia Jafari. E cosa dichiarano: l'alluminio serve per costruire camion su licenza Daimler Chrysler. Sapete a cosa doveva servire l'alluminio speciale commissionato all’Alcoa, quello che ha fatto scattare il primo intervento americano e nascere tutta l'inchiesta? Camion su licenza Daimler Chrysler.

Stessa scusa, stessi sospetti. Che crescono se si va a studiare la storia della Carvana. Una ditta che risulta privatizzata da poco: prima era posseduta da Bank Saderat of Iran, un istituto statale che un anno fa ha ceduto le azioni ai manager. E l’8 settembre scorso il governo di Washington ha vietato ogni rapporto con la banca degli ayatollah: «Finanziano il terrorismo».