LO STRANO CASO DEL COLONNELLO CHE VOLEVA (ANCHE LUI) LA BOMBA
Di Stefania Maurizi
Pubblicato su Il Venerdì di Repubblica, 20 novembre 2009
Il suo cellulare è un disastro. Prima un eco, poi un crepitio. La comunicazione torna chiara per qualche minuto, poi il crepitio riprende. “Chiudiamola qui”, fa Mr. Abushady, con il tono di chi è sulle spine. Quella di avere il telefono sotto controllo è una loro fissa. O, meglio, un sospetto fondato. “Pensi che io non ho mai lavorato nel dipartimento più sensibile: quello delle Safeguards, che si occupa delle ispezioni in Iran”, ci aveva detto tempo prima un suo collega dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica dell'Onu (Aiea), “eppure verso la fine ho saputo che il mio telefono è stato ascoltato per anni dall'intelligence di tre paesi”. Con Abushady concordiamo un incontro a quattr'occhi in Italia. Ed è qui che lo incontriamo, mentre è ospite di “Scienziati per il disarmo”, una delle pochissime élite italiane che, lontano dai riflettori, lavora per la riduzione degli armamenti. Egiziano, 61 anni, Yousry Abushady ha passato una vita all'Aiea. “Venticinque anni: dall' '84 al giugno 2009”, racconta, “ero alle Safeguards: l'unico ispettore che ha visitato quasi 40 paesi e 400 installazioni nucleari”. Tutto comincia con una laurea e un dottorato in ingegneria nucleare. Neanche trentenne, è già a Saclay a lavorare per i francesi. Sono gli anni '70. Anni turbolenti. Francia e Italia hanno attaccato a fare affari con Saddam: vendono tecnologia atomica sensibile. Troppo. E il Mossad non sta a guardare. E' il 1980, una bomba esplode negli uffici della Snia Techint a Roma, una delle aziende italiane che più traffica con l'Iraq. Mentre in un albergo di Parigi un grosso esperto nucleare egiziano al soldo degli iracheni, di nome Yahya Elmeshad, viene ritrovato in una pozza di sangue. Ha la testa spaccata e il corpo ridotto a un ammasso sanguinolento: è stato ammazzato a manganellate. “Fu un grande shock”, racconta, “Elmeshad era il mio professore, avremmo dovuto incontrarci a Parigi il giorno dopo”. Nel 1982 Abushady è in Libia. Gheddafi vuole un programma nucleare a tutti i costi. Ha soldi. Tanti soldi. Tecnologia russa e della Germania dell'est, ma i tecnici libici non sono all'altezza: il Colonnello arruola cervelli all'estero, allettandoli con offerte a cui non possono dire di no. Abushady finisce a Tripoli e per lui non è difficile emergere: arriva ai vertici scientifici, 10mila dollari al mese e vita blindata. Guardie del corpo che lo seguono ovunque. Per il suo bene, ovviamente... A Tripoli, però, tira un'aria bruttissima. Un giorno, due dei suoi studenti, che non tifano per il regime, finiscono impiccati sulla piazza dell'università, altri si perdono per sempre nelle carceri del Colonnello, senza che lui possa muovere un dito per aiutarli. A quel punto apre gli occhi e in lui si fa strada una certezza: se Gheddafi fosse arrivato alla bomba, “la minaccia più grossa e immediata sarebbe stata per il mio paese, l'Egitto, ancora prima che per Israele”, racconta con il tono di chi si toglie un peso dalla coscienza. “Questa storia mi turba ancora”, confessa, “ma prima o poi doveva venir fuori”.
Passano due anni e Abushady è già determinato a fuggire via dalla Libia, ma per uno nella sua posizione non è uno scherzo. L'occasione gli viene servita su un piatto d'argento: nel 1984 l'Aiea gli offre un posto. E' solo un'offerta a un tecnico capace o è la mossa azzeccata di una manina che vuole sfilare via un cervello per boicottare il programma di Tripoli? Sia come sia, Abushady coglie al volo l'occasione. Mentre è a Vienna, in missione per conto dei libici, ingurgita tanto di quello zucchero da finire in ospedale. E' diabetico: lo zucchero per lui è un veleno. Quando la moglie lo raggiunge per assisterlo, riescono a scappare insieme dall'ospedale viennese, nonostante le guardie del corpo. “Ho vissuto per 5 settimane in uno stato di semiclandestinità”, racconta. Aveva paura di essere liquidato da qualche killer assoldato dai libici. Poi, però, il suo status di diplomatico Onu lo rassicura: ormai è all'Agenzia. Per Abushady inizia la seconda vita. Piena di avventure ancora più della prima. Come quella volta che si ritrovò a Baghdad, nell'agosto del '95 con un team di ispettori che doveva venire a capo del programma nucleare di Saddam. Avevano stanato 1 milione di pagine di documenti segreti: disegni, formule e progetti chiusi dentro delle casse metalliche, che il dittatore pazzo aveva fatto nascondere in un allevamento di polli. Blindati in un albergo a prova di spionaggio elettronico, ad Abushady e a un suo collega toccò leggere quelle carte in appena 30 giorni. Un massacro. Di quell'esperienza non dimentica due cose: il tanfo insopportabile dei documenti e la fatica: “In un mese arrivai a perdere quasi 12 chili”.
Nel 2003, il programma nucleare di Gheddafi torna a far notizia. E’ la notte del 4 ottobre, nel porto di Taranto viene bloccato il mercantile Bbc China: a bordo ci sono cinque container con apparecchiature speciali. Sono componenti per le centrifughe di arricchimento dell’uranio e navigano verso Tripoli. Ancora oggi l’operazione è top secret, frutto della collaborazione tra Cia, MI6 britannico e il Sismi di Pollari. Le centrifughe sono state vendute clandestinamente alla Libia dalla rete del famigerato ingegnere nucleare pakistano Abdul Qader Khan. Preso con le mani nel sacco, Gheddafi rinuncia al suo programma nucleare e da quel momento comincia la lunga riabilitazione internazionale del leader paria. L'operazione Bbc China non si chiude a Taranto: diventa oggetto di una complessa inchiesta internazionale, portata avanti, tra gli altri, dal magistrato di Berna, Andreas Mueller. Fin dall'inizio, però, le indagini si rivelano un'impresa disperata: la Cia pretende dalla Svizzera la distruzione (tramite polverizzazione!) di una gran mole di documenti. Tra le carte distrutte nel 2008, ci conferma una fonte investigativa svizzera, c'erano anche i documenti della rogatoria partita da Berna e arrivata in Italia. Perché? Qualche storia sul Sismi che doveva sparire per sempre? “Voglio che sia chiaro che niente di quello che le dirò proviene da informazioni riservate o altamente riservate che ho appreso nel mio lavoro”, ci dice con tono fermo Abushady. Per lui, la storia di Taranto potrebbe essere tutta una 'copertura': un'operazione d'intelligence fatta non contro la Libia, verso cui erano dirette le centrifughe, ma fatta grazie alla Libia, che “potrebbe aver collaborato con i servizi occidentali, facendo da abbocco per mettere fuori combattimento la rete che trafficava queste tecnologie”. Collaborazione in cambio di cosa? Di uno sdoganamento di Tripoli, peraltro già deciso per realpolitik. “E' più tornato in Libia, dopo il 1984?”, gli chiediamo infine. “No”, racconta, “a Tripoli ho lasciato anche 80mila dollari, frutto del mio lavoro. Sono ancora lì. Ma anche Gheddafi è ancora lì...”.