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TRA GHEDDAFI E BERLUSCONI UN DISSIDENTE MORTO

Di Stefania Maurizi

Pubblicato sul Venerdì di Repubblica, 5 giugno 2009

Chiedo al governo italiano di aiutarmi a ottenere un’indagine indipendente sulla morte di mio fratello. Fathi è morto per la democrazia, era un uomo pacifico, che non ha mai organizzato neppure una manifestazione contro il regime. Tutto quello che voleva era la possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni, alla luce del sole”.

Mohamed Eljahmi non si rassegna. Vuole giustizia, vuole la verità sulla morte del fratello. Fathi Eljahmi, il più importante dissidente libico adottato come prigioniero di coscienza da Amnesty International, è morto in circostanze che vengono definite “non chiare” il 20 maggio scorso. Era stato portato in un ospedale di Amman, in Giordania, per problemi di salute, ma dalla Giordania è tornato morto. Come era arrivato in quell’ospedale?

Sessantotto anni, ingegnere, il suo scontro frontale con il Colonnello comincia nel 2002, quando è arrestato con l’accusa di spionaggio, per aver invocato Costituzione, libertà di voto e di stampa. “Eljahmi era il tipico prigioniero di coscienza: arrestato solo per aver espresso delle opinioni. Non aveva mai partecipato o promosso azioni contro il governo”, racconta Heba Morayef dell’associazione internazionale, Human Rights Watch, che ha seguito il caso. “Fu tenuto in isolamento, senza alcun processo per anni”, spiega, “nel 2006 fu internato in un ospedale psichiatrico”.

Rilasciato nel 2004 su pressioni americane, appena liberato Eljhami riafferma in televisione il suo pensiero. E viene arrestato di nuovo. Nel maggio 2006, dopo un processo a porte chiuse, viene dichiarato incapace di intendere e di volere e, quindi, rinchiuso in un ospedale psichiatrico dove trascorre circa un anno, non avendo contatti con la famiglia né con i suoi avvocati. Nel marzo 2008 Human Rights Watch e l’associazione Physicians for Human Rights (Phr, ovvero Medici per i diritti umani) riescono a ottenere il permesso di fargli visita al Tripoli Medical Center in cui è stato trasferito. Abbiamo rintracciato il dottor Scott Allen di Phr, che lo visitò in quell’occasione. Dal Cile di Pinochet fino all’Afghanistan dei Talibani, Phr ha una grandissima esperienza nel documentare scientificamente, con la certezza della medicina, le violazioni dei diritti umani. Racconta Scott Allen: “Quando visitai Eljahmi, constatai che riceveva delle buone cure mediche, perché quello di Tripoli era un buon centro, ma mi fu chiaro che non era sempre stato così”.

Stando alla ricostruzione del medico, la Libia aveva probabilmente accettato la visita delle associazioni per i diritti umani proprio per dimostrare che Fathi Eljahmi, malato di cuore, iperteso e con un serio problema alle coronarie, riceveva cure adeguate. Ma, secondo Allen, la sua salute era stata messa a dura prova. “Lo avete quasi lasciato morire per un cedimento del cuore”, fece notare il medico alle autorità libiche. Aggiunge: “Non credo si aspettassero che l’avremmo capito. Erano molto frustrati. Ma continuavano a ripetere che era libero di andarsene, quando era evidente che non lo era affatto, confinato in quella stanza d’ospedale”.

Dell’internamento, il dottor Allen racconta: “Negli Stati Uniti, io lavoro negli ospedali psichiatrici. Ho visitato Fathi Eljahmi e non ho trovato alcuna evidenza di un problema di salute mentale. Chiesi anche alle autorità libiche di fornirmi una qualsiasi prova, ma non mi dettero niente. Assolutamente niente. Neppure un certificato falso. Dunque sono veramente scettico. Ritengo che quell’internamento psichiatrico avesse ragioni del tutto politiche e che gli obiettivi fossero due: rinchiuderlo e delegittimarlo per distruggerne la credibilità. Un uso terribile della psichiatria”. Scott Allen ha un ricordo vivido di Fathi Eljahmi: “Una persona con una grande dignità e passione. E anche se fisicamente debole, trasmetteva forza e determinazione”. Heba Morayef di Human Rights Watch, invece, lo ricorda come l’ha visto per l’ultima volta al Tripoli Medical Center, nell’aprile scorso, appena un mese prima della morte. “Era veramente debole, magrissimo, non riusciva ad alzare le braccia e a parlare” . “L’hanno portato in Giordania già in coma, per evitare l’imbarazzo di una morte in Libia”, insiste il fratello di Eljahmi, accusando le autorità libiche. Ma su quello che è successo in quegli ultimi giorni non c’è certezza. Com’è morto, Fathi Eljahmi? Per scoprirlo, le associazioni internazionali per i diritti umani invocano un’inchiesta indipendente, mentre il fratello chiede che l’Italia, considerata da sempre vicina a Tripoli, si faccia carico di scoprire la verità. La sua speranza è che, durante la visita del Colonnello a Roma, il 10 giugno prossimo, il caso Eljahmi sia reso pubblico. Il senatore del Pd Marco Perduca (delegazione radicali) lo esclude: “Che io sappia, si parla solo di insignire Gheddafi di una laurea honoris causa in diritto…”. Lui e i radicali promettono guerra: se al leader libico sarà concesso l’onore di essere ricevuto in Senato, loro –assicurano –saranno in aula per ricordare “chi è davvero Muammar Gheddafi”.