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NUCLEARE: QUANDO PRIMA DEI VERDI, VOLEVANO FERMARLO GLI USA

Di Stefania Maurizi

Pubblicato sul Venerdì di Repubblica, 3 aprile 2009

Gennaio 1980. “Comunicazione riservata. Dal Dipartimento di Stato, Washington DC, all’ambasciata americana a Roma: ‘Cossiga ci ha spiegato che l’Italia aveva un contratto per 5 laboratori […] i nostri accordi devono rimanere segreti”.

Il segreto è rimasto inviolato per 29 anni. Ora però è stato spazzato via dal Freedom of Information Act, lo strumento con cui i cittadini americani possono chiedere la desecretazione dei documenti governativi. Il plico che abbiamo di fronte è alto almeno 15 centimetri, ma di carte ne mancano la metà: quelle che non sono state rilasciate sono ancora riservate e, tra quelle disponibili nel faldone, ce ne sono alcune così censurate che è inutile leggerle. Intrighi all’ombra del petrolio, traffici nucleari, operazioni di intelligence. E’ in queste comunicazioni ufficiali tra l’ambasciata americana a Roma e il Dipartimento di Stato Usa, negli anni ’78-’83, che vanno ricercati i retroscena dell’avventura nucleare italiana, prima che il fatidico referendum dell’ ’87 mettesse fine all’atomo Made in Italy. La storia ufficiale racconta gli anni ’70 e i primi anni ’80 come pieni di speranze per l’industria atomica del Belpaese: centrali all’avanguardia, una classe di tecnici invidiata e rispettata e l’Italia capace di competere con giganti dell’atomo, come la Francia. Poi la tragedia di Chernobyl e gli ambientalisti hanno distrutto tutto. E solo ora, 22 anni dopo, si torna a parlare di centrali. Ma è davvero andata così? Davvero la colpa è tutta degli ambientalisti? E se no, chi ha affossato il nucleare italiano?

Per gli americani era già in coma almeno dalla fine degli anni ’70. “Ci sono due fattori decisivi dietro la decisione dell’Italia di vendere tecnologia nucleare all’Iraq”, scrive nel gennaio 1980 l’ambasciatore americano Richard Gardner al Dipartimento di Stato, “il petrolio iracheno e il bisogno di assicurare lavoro alla moribonda industria nucleare italiana”. ‘Moribonda’ è una definizione che nei documenti americani ricorre continuamente. Stagnazione, mancanza di commesse, progetti che nascono già morti, come quello del reattore Cirene, interamente progettato dagli italiani e fiore all’occhiello della collaborazione tra l’Enel e il Cnen, il predecessore dell’Ente nazionale per l’energia atomica (Enea). Gli Usa guardano con grossa preoccupazione alla possibile vendita del Cirene all’Iraq di Saddam: è un reattore che può essere usato per produrre plutonio per la costruzione di armi nucleari e l’ultima cosa che gli americani vogliono è un Raìs con la bomba. Di fronte alle pressioni di Washington, però, il presidente del Cnen, Umberto Colombo, si sbottona: “Il Cirene è un binario morto”, ammette senza mezzi termini, “ma visto quello che è costato e gli investimenti che ha già richiesto, deve essere completato per forza”. Per gli Usa quello che sta succedendo è chiaro: l’industria nucleare italiana è in gravi difficoltà, non decolla, non ha lavoro e per fare cassa comincia a guardare fuori dai confini nazionali, all’Iraq di Saddam, alla Libia di Gheddafi e al Pakistan. Pazienza se i potenziali clienti sono dittatori o paesi instabili e turbolenti: gli affari sono affari e, in tempi di magra, scegliere è un lusso che non ci si può permettere. Ma gli americani non ci stanno: non accettano che una tecnologia strategica come quella nucleare possa finire nelle mani di Saddam o di Gheddafi. E allora, presi tra due fuochi, gli italiani cercano di barcamenarsi. “Colombo spera di convincere gli iracheni ad aspettare e a comprare il reattore Cirene dopo il 1983”, scrivono, “crede che per quella data l’industria nucleare italiana potrebbe avere abbastanza lavoro in patria da non essere così interessata all’Iraq”. Gli Usa, però, non si fidano. Sorvegliano Ansaldo, Snia Techint, Agip Nucleare e tutte le aziende che operano nel settore, avvicinano boss e tecnici, contattano i politici. L’ “alleato di ferro” Cossiga, lo sfuggente Andreotti, ma soprattutto Umberto Colombo. A lui e i suoi collaboratori più fidati arrivano a chiedere dettagli tecnici delicatissimi. Molte delle conversazioni con Colombo sono censurate, ma altre sono riportate nella loro interezza. “Colombo si sente limitato nella sua capacità di fare pressione sul governo italiano [per limitare le vendite di tecnologia nucleare agli arabi, ndr] per il fatto che è ebreo. Crede che gli iracheni non siano a conoscenza di questo fatto e ci ha chiesto discrezione al riguardo. Ma nella destra italiana presente nel Cnen e nel governo italiano è una cosa nota”.

Affari e commesse non sono l’unico problema dell’industria nucleare italiana. Quella atomica è una partita in cui petrolio e politica si mescolano prepotentemente. “Siamo consapevoli della vulnerabilità italiana a un possibile taglio delle forniture petrolifere”, ammettono gli Usa. In più occasioni, infatti, gli iracheni hanno reso esplicito il ricatto: la tecnologia atomica italiana è la contropartita per l’oro nero del Raìs, che a Roma arriva a chiedere “uno spostamento verso una posizione più filo araba sul tema dei palestinesi e dei territori occupati dagli israeliani”. E allora, dal piano degli affari, la partita nucleare si sposta su quello dell’intelligence e delle operazioni di sabotaggio, come quella bomba che la notte del 7 agosto 1980 esplose davanti alla sede della Snia Techint, una delle aziende italiane più coinvolte nella cooperazione nucleare con l’Iraq. “Rinnoviamo il nostro invito ad avvicinare gli israeliani affinché riducano la loro pressione sugli italiani e sugli altri”, scrivono gli americani. Ma di queste operazioni, nelle carte rilasciate, rimane poco più che l’ombra: non sono bastati 30 anni a rimuovere il segreto, che rimane gelosamente custodito negli archivi americani.