Home page Articoli e reportage

SEGRETI & BUGIE: FINISCE CON BUSH LA PRESIDENZA CHE HA IL RECORD DEL ‘TOP SECRET’

Di Stefania Maurizi

Pubblicato sul Venerdì di Repubblica, 19 dicembre 2008

L’informazione è potere. E l’accesso alle informazioni è l’ossigeno della democrazia. Eppure, nel 2007 gli Stati Uniti hanno speso qualcosa come 9,9 miliardi di dollari per il ‘segreto di stato’: una cifra folle, a cui tra l’altro vanno aggiunti i costi astronomici, ma che non si conoscono perché riservati, per mantenere Cia, Nsa, Nga, Dia, Nro, tutte agenzie di intelligence che vivono all’ombra del ‘top secret’. Il tramonto di Bush segna la fine di una delle amministrazioni Usa più ossessionate dal segreto. I dati parlano chiaro: nel 1997, con Clinton al potere, sono state desecretate 204 milioni di pagine di documenti, nel 2007, con George W. il numero è sceso drammaticamente a 37 milioni. E se i nove presidenti che si sono succeduti dal 1953 al 2001 si sono appellati al segreto di stato solo 55 volte in 48 anni, Bush in appena 7 vi è ricorso ben 22 volte. Né sarà semplice per gli studiosi sottoporre il presidente al giudizio della Storia, visto che, subito dopo l’11 settembre, Bush emanò una direttiva (Executive Order 13233) in modo da permettere agli eredi dei presidenti Usa di ostacolare il rilascio dei documenti che ne ricostruiscano l’operato nei minimi dettagli. Ma perché tanta ossessione per la riservatezza?

“Storicamente, i repubblicani ne sono più affetti dei democratici, ma anche per gli standard repubblicani l’amministrazione Bush si è distinta per un’insolita enfasi sulla segretezza, che probabilmente è dovuta all’influenza del vicepresidente Dick Cheney”, racconta al Venerdì il ‘guru della trasparenza’ Steven Aftergood, che guida l’osservatorio indipendente della ‘Federation of American Scientists’ sull’accesso alle informazioni. Sulla figura di Cheney come gran burattinaio del top secret, concordano anche il Premio Pulitzer Barton Gellman, giornalista del Washington Post e autore di una penetrante biografia del vicepresidente dal titolo ‘Angler’ e lo studioso Mark Agrast del think tank progressista ‘Center for American progress’ di Washington. “Sarebbe veramente difficile trovare una persona più fissata di Cheney”, ci racconta Agrast, “ha fatto dell’arte di nascondere le informazioni una vera e propria scienza”. Perché? “Per ragioni pratiche e di principio”, spiega Al Venerdì Barton Gellman, “Cheney non vuole intralci e crede che quello che succede alla Casa Bianca non siano affari nostri: pretende di essere giudicato per i risultati e non per i dettagli delle sue azioni”. Qualche esempio della sua fissazione? Investe anche le informazioni più banali, tipo “la lista dei nomi dei suoi impiegati o il loro numero”. E non ha risparmiato nessuno, neppure i collaboratori più fidati di Bush, come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice. “Quando qualcuno scriveva una lettera o un’email alla Rice, non sapeva che una mailing list segreta inviava la comunicazione all’ufficio di Cheney ”, racconta Gellman. “l’avvocato della Rice lo ha scoperto dopo Abu Ghraib, cioè quando ormai Bush era in sella da tre anni”. Per Gellman è Cheney l’uomo chiave nella decisione di Bush di rivedere in senso restrittivo le regole che garantiscono la conservazione e il rilascio dei documenti del presidente. “E’ stato il suo ufficio a formulare l’ordine esecutivo che permette di custodirli in segreto per un tempo più lungo”, conferma, raccontando come il vicepresidente abbia anche introdotto formula nuove : “esistono regole precise per stabilire ciò che deve essere ‘secret’ o ‘top secret’”, spiega Gellman, “Cheney ha inventato le etichette ‘maneggiare come segreto’ e ‘maneggiare come top secret’ per documenti che non sono né segreti né top secret, ma che devono essere gestiti come se lo fossero”. Perché tanta contorsione mentale? Per rallentare la diffusione di certe carte: quando gli archivisti si troveranno di fronte a situazioni così ambigue, accantoneranno in attesa di ulteriore revisione, ma poiché le pagine da rivedere sono ogni anno milioni, la pila crescerà e il rilascio dei documenti slitterà di anni.

E’ vero comunque che in certe faccende la riservatezza è sacrosanta. Quello che, però, gente come Steven Aftergood non tollera è l’eccesso di secretazione e gli abusi in nome della tutela della collettività. Di abusi se ne registrano a bizzeffe e uno del lontano 1953 ha fatto storia: è l’opposizione del segreto di stato a un incidente provocato da un bombardiere B29. Alle famiglie delle vittime, che chiedevano giustizia, fu negato l’accesso ai documenti della tragedia.“ E’ in ballo la sicurezza nazionale”, si giustificò il governo. Anni dopo, quando le carte furono finalmente rilasciate, venne fuori la verità: il segreto era stato opposto semplicemente per proteggere i boss dell’aeronautica, perché quell’aereo aveva una lunga storia di guasti e incidenti da vera e propria carretta volante. Da quel B29 fino allo scandalo di Abu Ghraib, eccessi e abusi sono degenerati in situazioni paradossali, tipo la scelta di Bush di risecretare migliaia di documenti già desecretati, come quelli che dimostrano il clamoroso fallimento della CIA nel prevedere l’esplosione della prima atomica sovietica nel 1949: roba da museo e ormai di dominio pubblico. L’overclassification, ovvero l’eccesso di secretazione, ormai è conclamato, al punto che una fonte non sospetta come l’ex ufficiale del Pentagono, Carol Haave, nel 2004 ha stimato che il 50% dei documenti governativi finirebbe inghiottito dal segreto, pur non avendo le caratteristiche per essere tale. Una fetta enorme di informazioni, come enormi sono i costi. Con Bush hanno sfiorato i 10 miliardi di dollari nel 2007, una cifra “dovuta alle spese per conservare in sicurezza i documenti”, ci spiega Aftergood, “per la sicurezza dei computer e per le indagini sulle persone che hanno accesso a certe carte”. Ma ormai che George W. sta per eclissarsi definitivamente, tutti nutrono grandi speranze. “C’è l’aspettativa diffusa che la segretezza dell’amministrazione Bush finisca tra le cose del passato”, conclude Aftergood, “garanzie non ce ne sono, ma Obama sembra già orientato verso uno stile diverso”.