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SE OGGI FOSSI IN IRAN, COSTRUIREI LA BOMBA ATOMICA

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su il Venerdì di Repubblica, 16 maggio 2008

Il mio paese deve essere forte e rispettato. E non lo è. Se le armi nucleari sono un mezzo per farci rispettare, allora dobbiamo averle. Perché Israele le ha? Vanno bene per tutti, ma non per noi? E’ incredibile!”.

Chi parla è uno che l’Iran lo conosce bene. E tutto è cominciato da lui. Akbar Etemad è l’uomo che ha creato il programma nucleare di Teheran nel lontano 1974, quando c’era ancora lo scià, Pahlavi. A vederlo così dimesso, mentre conversa con noi nella sua casa di Parigi a 10 minuti da Montparnasse, pare incredibile il potere che questo ultrasettantenne fiero ha gestito. Etemad ha accettato di raccontare la propria storia al Venerdì e di spiegare perché, se fosse in Iran, costruirebbe l’atomica.

“Il programma che mise in piedi per lo scià puntava alla bomba?”, gli chiediamo subito. “No, era di tipo civile, per produrre energia”, spiega, “ma non c’è un confine netto”, ammette apertamente, “una volta che si ha in mano la tecnologia, ci si può fare quello che si vuole”.

Quello nucleare è un mondo in cui politica internazionale, affari e strategie militari s’intrecciano. E’ un mondo di insider, dove chi è dentro non parla, chi è fuori non sa. Akbar Etemad è uno che sa. E per essere uno vissuto in quella realtà, è una persona accessibile e diretta. Fu proprio lui a posare la prima pietra del programma nucleare iraniano nel ’74. Forte di una laurea e un dottorato in ingegneria nucleare nelle migliori università europee, era riuscito a farsi strada alla corte di Pahlavi, fino a diventare vice primo ministro dell’Iran e capo dell’Agenzia Iraniana per l’Energia Atomica. Etemad, però, capì subito quant’era difficile mettere le mani sulla tecnologia nucleare, perché i paesi più avanzati che ne erano in possesso, se la tenevano stretta. Per acquisirla, gestì anni di trattative con gli americani, i francesi e i tedeschi, mentre la sua frustrazione cresceva nel constatare che Parigi faceva sì accordi nucleari con l’Iran, ma anche con il nemico Saddam. “Un matto”, taglia corto Etemad, ricordando compiaciuto come l’ambasciatore francese a Teheran ogni mese andasse da lui a spifferargli cosa vendevano a Saddam. La collaborazione con la Francia e la Germania, comunque, andò in porto e l’uomo dello scià si ritrovò alla guida di un ambizioso programma. “Dovevo essere in grado di padroneggiare la tecnologia”, ricorda, “se [Pahlavi, ndr] avesse deciso di acquisire le armi nucleari, dovevo essere in grado di dargliele entro un anno”. Per procurarsi il combustibile, Teheran arrivò a investire una cifra pazzesca su Eurodif, un consorzio di arricchimento dell’uranio, controllato dai francesi. Gli iraniani sborsarono 1 miliardo di dollari (di allora!) e in cambio acquisirono il diritto a ottenere il 10 percento dell’uranio arricchito prodotto dal consorzio. Poi, però, il ciclone della rivoluzione si abbatté sull’Iran, che non fece in tempo ad acquisire il pieno controllo della tecnologia nucleare. “Ci mancavano 5-6 anni”, dice Etemad. La Francia si rifiutò di consegnare l’uranio a Khomeini, l’ayatollah che bollava l’America come il ‘Grande Satana’. Con quel materiale, Teheran non avrebbe mai potuto costruire la bomba: era arricchito solo al 4 percento, ma i francesi “volevano punire la Repubblica islamica”, racconta Etemad. La rivoluzione, comunque, travolse tutti e nel furore che portava il popolo a distruggere tutto quello che lo scià aveva costruito, il programma fu accantonato e guardato come il frutto del collaborazionismo con il satanico Occidente. “Ora, invece, il nucleare è tornato a essere un must”, ci dice Etemad, che racconta così la fine del regno di Pahlavi: “La cosa più incredibile fu il comportamento delle donne. Erano libere”, spiega, “nel mio staff ce n’erano 12, tutte con un’istruzione di alto livello e ben pagate. Ho visto coi miei occhi come cominciarono a indossare il velo, semplicemente come forma di opposizione al governo dello scià”. “La gente, dunque, era disposta a rinunciare alle proprie libertà personali e a stare dalla parte del clero più retrivo, pur di mandarvi un messaggio di disapprovazione”, gli facciamo notare, “nessuno si preoccupò di un segnale così allarmante?” “Ero molto ansioso”, ribatte, “ma è un po’ come trovarsi di fronte a un malato in condizioni disperate: te ne rendi conto, ma non sai cosa fare”.


Etemad lasciò l’Iran due mesi prima che la nave affondasse e andò a Parigi, dove vive ormai da 30 anni con la sua famiglia. Da Giscard d’Estaing a Chirac, la Francia che contava gli aprì immediatamente le porte, offrendogli subito la cittadinanza e la cooptazione nel potente establishment nucleare, in cui ha goduto dell’amicizia dei padreterni dell’atomo francese e ha potuto fare soldi, tanti soldi. “E l’Iran di oggi?”, gli chiediamo. Dovreste sentirlo con che fervore lo difende. “Ogni volta che vado in Iran, vedo una società così potente. E’ una realtà in ebollizione, piena di giovani”, racconta con trasporto, “2 milioni e 600mila studenti e il 60 percento sono donne, assertive, intelligenti”. “Dunque lei è ottimista”. “Sì”, risponde convinto, “è una società vivace, anche se abbiamo problemi con il governo, che impone cose odiose alla gente, ma un giorno finirà”. Poi, con aria di sfida: “Se fossi in Iran, costruirei la bomba”. “Perché?”, chiediamo. “Per difenderci”, risponde con fermezza, “gli americani hanno attaccato l’Iraq solo dopo 4 anni di ispezioni. Solo dopo aver capito che non c’era niente [Saddam non aveva l’atomica, ndr] hanno attaccato, prima non si sono azzardati”. E ancora: “L’Iran può essere potente come la Francia, l’Inghilterra o la Germania, perché no? Perché dovremmo accettare che gli americani ci diano l’autorizzazione a fare questo o quello?” “Ma quello iraniano è un regime”, insistiamo, “se ottenesse la bomba, diventerebbe inamovibile. E quindi continuerebbe a opprimere la sua gente”. “A volte i regimi opprimono il popolo non perché sono forti, ma perché sono deboli”, replica, “ho l’impressione che se [a Teheran, ndr] si sentissero al sicuro da attacchi militari esterni, sarebbero più aperti con gli iraniani”. “A che puntano, secondo lei?” “Ad acquisire la tecnologia, contando solo su se stessi”, risponde, ricostruendo tutti i bocconi amari che, dal caso Eurodif in poi, l’Iran ha dovuto mandar giù nella partita nucleare con l’Occidente. “Può essere un programma civile o militare: nessuno lo sa”, dice con un tono severo, “quando sia ha in mano la tecnologia, la si usa come si vuole. E’ così per tutti”. “E Israele starà a guardare?”, lo incalziamo. Etemad non vede ostacoli all’orizzonte: le sanzioni non hanno fermato Teheran, un attacco mirato ai siti nucleari iraniani è improbabile, una guerra su larga scala è ancora più improbabile: l’Iran non è l’Iraq e gli americani hanno guai a non finire da Baghdad fino a Islamabad. Solo una cosa può mettere in pericolo il programma di Teheran: una spaccatura all’interno del regime. “Non sono sicuro”, dice Etemad, “che sul nucleare la pensino tutti allo stesso modo”.