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VI RACCONTO IL SEGRETO DELLA BOMBA ATOMICA (SEGRETA) DI ISRAELE

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su Il Venerdì de La Repubblica, 12 Gennaio 2007

I proclami truci di Ahmadinejad, le sanzioni all’Iran fresche di approvazione e le accuse iraniane alla comunità internazionale colpevole di usare due pesi e due misure: più che tollerante con le armi nucleari di Israele e vessatoria col programma nucleare dell’Iran. L’atomica continua ad essere uno dei grandi totem che infiammano il Medio Oriente. “Si possono mettere sullo stesso piano l’America, la Francia, Israele, la Russia e l’Iran, che aspira ad avere armi nucleari?” , ha chiesto durante la sua ultima visita in Europa il premier israeliano Olmert, suscitando un vespaio di polemiche, perché, paragonando le potenze nucleari ‘responsabili’ all’Iran di Ahmadinejad che minaccia di cancellare Israele, Olmert ha riportato sotto i riflettori il grande tabù: lo status di potenza nucleare di Israele. Il mistero che circonda il programma nucleare israeliano alimenta ogni sorta di storie e paranoie, ma spesso le polemiche rimangono al ‘si dice’ e ‘pare’, perché di certezze sull’ ‘Atomica di Jahvè’ ce ne sono veramente poche. Lo studioso israeliano Avner Cohen è uno dei pochissimi al mondo a poter far luce sul ‘grande tabù’. Ricercatore presso il Centro per la Sicurezza Internazionale dell’Università del Maryland (USA),  Cohen ha passato un decennio a studiarlo, pubblicando (a proprio rischio e pericolo…) un lavoro  monumentale:  Israel and The Bomb (Columbia University Press, 1998).
“E’ ovvio che Olmert non voleva cambiare la politica di Israele”, risponde pronto alla nostra richiesta di sapere come interpreta l’uscita di Olmert: gaffe o desiderio di uscire allo scoperto dopo tanti anni di ambiguità? “ Credo sia stato un fraintendimento”, continua Cohen, “Olmert voleva evidenziare la differenza tra l’Iran e Israele”.
Il telefono non aiuta, si sa. “In che contesto verrà pubblicata?”, chiede della nostra intervista. E’ una preoccupazione sempre comprensibile... Avner  Cohen, però, sembra particolarmente allergico al telefono e si rilassa solo quando la nostra conversazione prende una piega accademica. Cohen è lo studioso che ha introdotto il concetto di ‘opacità nucleare’ per definire l’ormai consolidata politica israeliana. All’interno del ‘club nucleare’, lsraele ha un atteggiamento unico: è l’unico membro del club che nega il suo status di potenza nucleare. Non ha mai firmato il Trattato di Non-Proliferazione, ma non se n’è mai uscito con proclami roboanti o ammissioni low profile sul suo arsenale nucleare, né – per quello che si è potuto accertare – ha mai testato ordigni. E’ dagli anni ’70 che è comunemente accettato che è una potenza nucleare, eppure è dal ’63 che i suoi leader ripetono che Israele non sarà il primo paese a introdurre le armi nucleari in Medio Oriente: lo diceva il premier Levi Eshkol nel ’66, lo ripete Olmert nel 2006. “Per ‘opacità nucleare”, spiega Cohen, “intendo una situazione per cui i leader del paese negano l’esistenza di queste armi, ma l’evidenza della loro esistenza è tale che di fatto influenza gli altri paesi e le loro azioni. E’ diversa dall’ambiguità”, argomenta con piglio accademico, “ormai c’è ben poca incertezza sul fatto che Israele abbia le armi nucleari. Credo che non ci siano più dubbi”. Cohen è preoccupato che anche l’Iran stia scegliendo la via dell’opacità, gestendo il suo programma nucleare all’insegna di negazioni, dissimulazioni e ambiguità. Ma perché Israele ha scelto l’opacità? Che tipo di vantaggi strategici ne ricava? “Da una parte”, spiega, “è il risultato di un accordo segreto, ormai molto lontano nel tempo, tra il premier israeliano Golda Meir e il presidente americano Nixon: ‘don’t say, don’t ask’, una sorta di benedizione americana a posteriori, a condizione, però, che il programma nucleare israeliano mantenesse un basso profilo. Dall’altra è una strategia che punta a minimizzare il più possibile il desiderio degli arabi di acquisire le armi nucleari, perché permette loro di ignorare il problema e, allo stesso tempo, fa passare l’idea di Israele come di un ‘proliferatore riluttante’, che non fa un uso diplomatico della bomba”. Perché - lo incalziamo - nessuno sfida apertamente l’opacità nucleare di Israele? E’ una situazione a dir poco bizzarra che tutti sappiano, ma che nessuno dica ufficialmente… “Nessuno la sfida, perché ormai è consolidata”, risponde, “non si può far scoppiare un macello per una situazione che va avanti ed è nota da 40 anni”.
Cohen individua tre personaggi cruciali senza i quali Israele non avrebbe ottenuto la bomba: il leader carismatico Ben Gurion, lo scienziato visionario Ernst Bergmann e il politico Shimon Peres, che acquisì il materiale, le competenze tecniche e i finanziamenti per il programma. Cohen racconta di un Ben Gurion sempre ossessionato dall’idea di un attacco congiunto di tutti gli eserciti arabi: Israele era uno stato troppo piccolo per ottenere una vittoria finale sugli arabi e la grandezza degli stati arabi e le loro risorse rendevano improbabile uno scenario in cui il mondo arabo avrebbe prima o poi accettato l’esistenza di Israele. Secondo Ben Gurion, l’unica soluzione era la costruzione di un’efficace forza di deterrenza e nel ’67, alla vigilia della guerra dei Sei Giorni, Israele aveva già una rudimentale capacità nucleare. Quando ci addentriamo nella storia della via israeliana alla bomba, il disagio di Avner Cohen riaffiora: “Non voglio entrare in questioni tecniche” e anche: “Le suggerisco di non fare questo genere di domande”. Pare strano che abbiamo sfiorato temi ‘pericolosi’: sono vicende di 40 anni fa. “Come hanno fatto gli israeliani a nascondere gli enormi impianti di riprocessamento del combustibile nucleare dagli aerei spia U-2 e il grande numero di scienziati e tecnici che lavorarono al progetto?”, insistiamo, “Sono mai ricorsi a soluzioni tipo quelle di Saddam, che pare arrivò a chiuderli nei manicomi, per sottrarli agli ispettori?” “Non penso”, taglia corto, “ non ne so molto e se anche lo sapessi non ne parlerei”. Il rifiuto di Cohen di affrontare questo tipo di domande è totale e per capire le difficoltà che caratterizzano il nostro colloquio, basta leggere una sua lettera di 5 anni alla Federazione degli Scienziati Americani (FAS): “Nel ‘98”, scrive, “ho pubblicato negli Stati Uniti il mio libro […] Da allora sono stato sotto stretta osservazione, a volte attaccato e spiato dall’ufficio del capo della sicurezza del Ministero israeliano della Difesa (MALMAB), che ha provato in molti modi […] a impedirne la pubblicazione”. Poi continua con il tema che gli sta più a cuore:  “Le decisioni che riguardano le armi nucleari sono tra le più cruciali che uno stato possa prendere. Hanno moltissime conseguenze – dalla salute di chi ci lavora materialmente alle questioni di politica regionale, sicurezza nazionale e peacekeeping nel Medio Oriente. Quando tutta la discussione fattuale non è semplicemente permessa in pubblico, i cittadini non possono avere neppure una parvenza di discussione informata. E la discussione informata è l’essenza della democrazia. Sono convinto che sia arrivato il momento di aggiornare il contratto mai messo per iscritto e firmato 2 generazioni fa tra gli israeliani e il segreto nucleare”. Cohen ricorda bene il prezzo pagato per la pubblicazione del libro: “E’ stata un’esperienza dura e dolorosa. Sono andato in Israele nel 2001 [per un convegno, ndr] e sono stato interrogato per 50 ore”, racconta, “alla fine, però, le accuse contro di me sono state lasciate cadere e ho vinto io: la politica nucleare israeliana rimane la stessa, ma almeno ora c’è più spazio per la discussione. Se non altro, il mio caso ha contribuito a fare un po’ di luce sul tabù”.