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QUANDO COSTRUIVO LA BOMBA ATOMICA PER SADDAM HUSSAIN

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su IL VENERDI’ de LA REPUBBLICA, 15 settembre 2006

“Non capisco tutto questo casino sull’Iran, perché se l’Iran volesse veramente la bomba, potrebbe costruirla comunque, anche se rinunciasse all’arricchimento dell’uranio: potrebbe avere impianti segreti quando vuole, come abbiamo fatto noi. Io non credo che vogliano la bomba”. Anche voi lo dicevate, eppure prima della Prima Guerra del Golfo ci lavoravate… “Sì. E nessuno avrebbe potuto fermarci, se Saddam non avesse invaso il Kuwait ”.   

Probabilmente Roma lo mette a suo agio, perché stavolta l’appuntamento è in un elegante albergo, proprio sopra Piazza di Spagna, in cui perlomeno risulta un cliente col suo nome: Jafar Dhia Jafar. Distinto e con la sua tipica aria di mistero, Jafar è l’Oppenheimer di Saddam, il fisico che ha diretto il programma nucleare iracheno fin dagli anni ’70 e l’insider che conosce mille segreti del regime. E’ libero come l’aria…

Vengo da Firenze”, esordisce raccontandoci di un meeting d’affari al Nuovo Pignone, una delle nostre ex aziende di stato, ormai in mano al colosso americano General Electric. Rampollo di una delle più potenti famiglie dell’Iraq, educato nelle esclusive boarding school inglesi, mai iscritto al partito Baath e del tutto indifferente alla religione, Jafar ricorda ogni dettaglio di come Saddam gli chiese l’atomica nel settembre dell’81: solo 3 mesi dopo che gli israeliani bombardarono il reattore iracheno Osirak. Voleva dirgli no, ma aveva paura?, gli chiediamo. “No, non volevo dire no e non lavoravo per Saddam, lavoravo per l’Iraq”, risponde con la serenità di chi non ha nulla da nascondere o rimproverarsi. “Volevamo controbilanciare l’arsenale nucleare di Israele”, ci dice, e “il programma sarebbe durato 10 o forse 15 anni, nessuno poteva sapere se Saddam sarebbe stato ancora lì”. Jafar considera la bomba come una garanzia contro le invasioni esterne: “se l’Iraq l’avesse avuta, gli americani non ci avrebbero invaso nel 2003”. Del resto, “nessuno minaccia di azione militare la Corea del Nord”. Argomenta che “la risposta sarebbe un Medio Oriente senza armi nucleari, ma se Israele ha la bomba, allora è bene che anche l’Iran ce l’abbia e il Pakistan e tutti gli altri”. Poi, con un tono pacato ma fermo, aggiunge: “se l’Iran raggiungesse lo status di potenza nucleare, gli americani non potrebbero più fare tutto quello che vogliono nel Golfo”.

Quanto all’Iraq di Saddam, invece, non ottenne mai una sua atomica “per ragioni politiche”, racconta Jafar. Tutto andava a gonfie vele: “nel ’90, 8mila persone lavorano direttamente al programma e 3-4mila indirettamente”; l’Oppenheimer di Saddam era riuscito a mettere in piedi un grande programma nucleare clandestino, in un paese sostanzialmente in via di sviluppo, facendola sotto il naso a tutti; secondo le sue stime, mancavano solo 2- 3 anni per finire gli impianti di produzione dell’uranio arricchito, ma fu proprio allora che Saddam prese la decisione che segnò l’inizio della fine: invase il Kuwait. I bombardamenti della Prima Guerra del Golfo, l’embargo e, soprattutto, l’UNSCOM - il team ONU che condusse le ispezioni in Iraq subito dopo la guerra - azzerarono completamente il programma: l’Iraq chiuse per sempre col nucleare nel ‘91. Per sempre, ripete mille volte Jafar. “Ma l’AIEA giocò in modo molto scorretto con l’Iraq”, racconta riferendosi alle ispezioni del 2003, “sapevano che non avevamo niente, ma non lo dichiararono”. Jafar è convinto che gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dell’ONU fossero sotto la pressione degli USA e dell’Inghilterra. “Per me, sono loro i responsabili della guerra in Iraq”, dice con tono assertivo. Sfioriamo il mondo oscuro delle aziende che aiutarono l’Iraq a costruire le centrifughe per arricchire l’uranio. Anche aziende italiane? “Sì”, risponde  pensieroso, “forse alcune aziende italiane fornirono materiale per le centrifughe, o meglio parti per le centrifughe”. E ovviamente lei ha una lista, lo incalziamo. “Sì”, replica con un filo di voce. La tensione è altissima. Comprensibilmente…A tutt’oggi, la lista delle aziende, europee e non, che fornirono tecnologia all’Iraq per il programma nucleare clandestino è segreta, per un patto tra l’UNSCOM e i governi dei paesi che avevano imprese private coinvolte nell’affaire. A rivelarci questa informazione, però, non è Jafar, bensì l’ambasciatore Rolf Ekeus, ex capo dell’UNSCOM: fu questo il prezzo da pagare per ottenere la collaborazione dei governi alle indagini, ci spiega Ekeus. Per Jafar, invece, l’argomento lista è un tabù assoluto…perciò passiamo ad altro.

E’ stato difficile scappare?, chiediamo a Jafar. “Non molto”, risponde col suo aplomb. Era la sera del 7 aprile 2003, nel pandemonio generale della guerra dell’Iraq, Jafar filò via indisturbato dall’Iraq con moglie e figlia, convinto che, se fosse rimasto, l’avrebbero arrestato. Baghdad cadde nelle mani degli americani il 9 aprile, il giorno dopo Jafar apprezzò come non mai il cielo di Damasco, mentre volava verso Dubai. ‘Costringete l’aereo ad atterrare ad Abu Dhabi e arrestatelo’, ordinò il generale Franks in persona: l’intelligence aveva scoperto che su quell’aereo c’era un pezzo da novanta tanto importante da far scomodare Tommy Franks, comandante in capo delle truppe americane d’invasione dell’Iraq. Ma l’autorizzazione ad atterrare ad Abu Dhabi non arrivò mai: avrebbe dovuto rilasciarla lo sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, l’attuale vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, ma era troppo amico del fratello di Jafar, un miliardario del petrolio… A Dubai, però, la CIA arrivò ineluttabile come la morte. “Accettai di sottopormi per 2 volte alla macchina della verità”, ci dice Jafar, descrivendoci il test: “9 domande in tutto, ma 2 servivano solo a calibrare la macchina”. E così, due giorni dopo la presa di Baghdad, le armi di distruzione di massa di Saddam che scatenarono la guerra ancora in corso, non valevano che 7 punti interrogativi…“Non avevamo niente”, ci ripete mille volte, dopo aver ricostruito 25 anni alla corte del Raìs, come Oppenheimer di Saddam e poi viceministro dell’industria. Ora, la guerra del 2003 e Dubai gli hanno regalato una nuova vita.

“Ho chiuso da 15 anni col nucleare”, ribadisce alla nostra obiezione che le sue competenze nucleari potrebbero far gola a molti… strano che giri indisturbato e che il Mossad… “E’ evidente che non mi considerano una minaccia”, replica tranquillo Jafar, “e di fatto non lo sono”. Ormai è un businessman di successo e il suo gruppo di imprese con sede a Dubai partecipa anche alla ricostruzione dell’Iraq. E’ nel settore energia, petrolio e gas, di qui l’interesse per il Nuovo Pignone della General Electric, con cui – racconta – ha rapporti di lavoro. A quanto pare agli americani va bene così… “Sarebbe interessata a una versione italiana?”, ci dice riferendosi a “Oppdraget”, il libro delle sue memorie, uscito solo in arabo e norvegese. Ci dichiariamo interessati a condizione che aggiunga un capitolo sull’Italian side della sua storia: dalla collaborazione nucleare Italia-Iraq all’affare BNL, dall’Oil For Food al Nigergate. Rimane pensieroso per qualche secondo, poi ci accompagna all’uscita di quell’albergo romano. E’ il nostro ultimo incontro con l’Oppenheimer di Saddam: ogni tentativo di ricontattarlo cadrà nel vuoto.