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PUNTLAND, IL COVO DEI PIRATI (English translation not available)

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su l'Espresso, 1 novembre 2011

(http://espresso.repubblica.it/dettaglio/puntland-il-covo-dei-pirati/2164817)


La nuova Tortuga è una città fantasma, Eyl, dove tutti vivono grazie ai bottini. E la loro patria è uno Stato che non c'è, come l'isola di Capitan Uncino: il Puntland, una scheggia del caos che da venti anni lacera la Somalia. Questo è il regno dei nuovi pirati: affamati, feroci, primitivi ma allo stesso tempo invincibili. Tanto da fare scuola in altre coste del Terzo Mondo: a largo della Nigeria, delle Seychelles e persino in Sudamerica.

Un dossier degli ispettori delle Nazioni Unite - che "l'Espresso" pubblica in esclusiva - permette di fare luce sui bastioni dell'ultima filibusta: una fabbrica di abbordaggi che sta facendo scuola nel Terzo Mondo, con protezioni e rifugi che nemmeno le flotte più potenti del
pianeta riescono a penetrare. Oggi nelle loro basi sono tenuti prigionieri 277 marinai e 15 navi: undici uomini sono italiani, parte dell'equipaggio di due mercantili della Fratelli D'Amato di Torre del Greco catturati dai predoni del Corno d'Africa.

La Savina Caylyn è nelle loro mani dall'8 febbraio con 22 marinai, di cui cinque italiani; poi il 21 aprile è stata la volta della Rosalia D'Amato, che ha un equipaggio di 21 uomini, sei dei quali italiani. Le prede con bandiera tricolore sono molto ambite perché - come spiega a "l'Espresso" una fonte dell'Onu - "gli italiani sono noti per pagare riscatti molto alti. Le cifre circolate per la Buccaneer (la nave italiana catturata nel 2009) sono le più alte mai pagate in Somalia. E questo incoraggia i pirati a tirare al massimo le trattative". Un terzo mercantile, il Montecristo, due settimane fa si è salvato grazie alle difese speciali create a bordo: una cittadella blindata dove l'equipaggio si è barricato, fino all'intervento dei commandos occidentali. "E' stata un'operazione della flotta Nato che pattuglia quella zona, non delle forze inglesi o americane. E' stata coordinata dall'ammiraglio italiano della nave Andrea Doria. E per la prima volta l'Italia ha deciso di processare i pirati catturati". Perché finora il nostro governo, come altre potenze europee, ha sempre rilasciato i predoni: non esiste una legge internazionale che permetta di giudicarli.

Lo stato canaglia.


E' dal 1991 che in Somalia non c'è più un governo e lì nell'ultimo decennio ben 194 navi sono state assaltate. Il dossier del Gruppo Onu di monitoraggio dell'area, coordinato da Matt Bryden, rappresenta il più importante documento mai realizzato sulla pirateria, ricostruendo tecniche di attacco, covi e reti di complicità della pirateria. Tutto il Paese è in mano a un esecutivo di transizione, caratterizzato da una "corruzione endemica", incapace di controllare un territorio, spaccato in due, con un nord relativamente stabile e un sud completamente distrutto da conflitti infiniti. Il covo dei pirati è il Puntland, una regione del nord ovest della Somalia, dove si trovano città come Eyl, vera e propria roccaforte dei corsari: lì la Bbc ha documentato perfino l'esistenza di ristoranti "specializzati" nel preparare i pasti per i bucanieri e i loro ostaggi.

Ufficialmente le autorità del Puntland offrono collaborazione alla lotta internazionale alla pirateria, ma di fatto i corsari scorrazzano impuniti e, anche quando vengono catturati, vengono rilasciati "con giustificazioni dubbie", come nel caso di Abdirashid Muse Mohamed, condannato a venti anni nel 2008 e graziato con "un perdono presidenziale" nel 2010. Gli ispettori dell'Onu ne parlano come di un vero "Stato canaglia": "L'atteggiamento delle autorità del Puntland è profondamente ambiguo, con funzionari di tutti i livelli che beneficiano dei proventi della pirateria". La regione, però, non è l'unico hub dei bucanieri. In Somalia operano due grandi network: quello di Puntland e quello di Hobyo-Xarardheere, che sono due distretti nella regione centrale del Mudug. Sebbene ciascuna delle due reti abbia differenti caratteristiche locali e si appoggi a clan diversi, i due rami della pirateria collaborano e sono documentati contatti tra i loro leader, spostamenti concordati delle navi catturate e la partecipazione congiunta alle operazioni in mare.

All'arrembaggio.


Gli attacchi non hanno nulla di sofisticato. I pirati si muovono su barchini, piccoli ma velocissimi, che partono da una nave-madre di dimensioni maggiori. L'uso delle navi-madre ha permesso di estendere notevolmente il raggio degli assalti: possono colpire dal nord del Kenya fino alle coste del Sudan, anche a grande distanza dal litorale. Si piazzano sulle rotte più trafficate e strategiche, servendosi di comuni strumenti di navigazione, come i gps.

Dalla nave-madre parte la squadra d'attacco, che consiste di norma di due o tre barchini, ciascuno con quattro- sette pirati a bordo. Giovani tra i 17 e i 32 anni, armati fino ai denti di kalashnikov e lanciagranate, non hanno difficoltà ad avere ragione di equipaggi disarmati, come prevedono le regole internazionali della navigazione commerciale. I pirati non hanno bisogno di arsenali, ma per le loro operazioni necessitano di un flusso costante di armi. In una Somalia in guerra da venti anni questo non è un problema: l'embargo internazionale rimane sulla carta. Mitragliatori, razzi e munizioni arrivano dallo Yemen, via mare, attraverso il porto di Bosaso, che si trova sempre nel Puntland. Da lì, l'80 per cento finisce a Mogadiscio, "dove si registrano combattimenti giornalieri" e il resto "è destinato a sostenere le operazioni di pirateria".

Sospetti e prede.

Da anni c'è il sospetto che i corsari vengano informati del passaggio di prede particolarmente ricche: petroliere, portacontainer con prodotti d'elettronica e in un caso persino un cargo pieno di carri armati ucraini. La Somalia è un buco nero, popolato di signori della guerra, mercenari, spie e traffici oscuri. Ma gli ispettori delle Nazioni Unite sembrano sgombrare il campo da questi dubbi: "Nonostante i rapporti sul fatto che i pirati si servano di estese e sofisticate reti di intelligence, la scelta degli obiettivi e le tattiche impiegate sembrano suggerire che non sia così". Le vittime vengono probabilmente scelte a caso e il numero di attacchi contro navi militari straniere - puntualmente falliti - suggeriscono che le "capacità di intelligence dei pirati siano, nel migliore dei casi, inaffidabili".

Terroristi o Robin Hood?


Spesso i filibustieri fanno propaganda e usano giustificazioni etiche per i loro raid. Dicono di volere difendere le risorse naturali della Somalia. O, come è accaduto nel sequestro della Buccaneer italiana, accusano gli armatori di esportare rifiuti tossici in Africa. Ma il rapporto Onu affonda questi alibi: documenta ad esempio il caso di quattro pescherecci coreani, impegnati a pescare indisturbati al largo delle cose del Puntland. "Nonostante la retorica dei pirati somali che sostengono di proteggere le risorse marine, quelle barche operavano senza alcun problema, inviando i segnali di identificazione (...) nessuno di essi è stato attaccato". Gli ispettori provano invece l'esistenza di accordi tra predoni del mare e le milizie islamiche shabab, i fondamentalisti che insanguinano la Somalia. Nessun patto strategico, ma intese sul territorio: molti covi si trovano in aree sotto il controllo degli shabab, tipo il distretto di Xarardheere, dove i pirati girano ai miliziani islamici una parte dei riscatti pagati dalle compagnie di navigazione.

I manager del riscatto.


Le navi sequestrate diventano prigioni-fortezza, tenute sotto stretta sorveglianza dai pirati che temono i raid occidentali ma soprattutto attacchi da parte di altri predoni. In genere, gli ostaggi vengono trattati in modo decente: se si ammalassero o morissero, perderebbero di valore. Non mancano, però, casi in cui, per fare pressione sulle compagnie di navigazione, i marinai sono stati torturati bestialmente.

Come è successo a quelli del mercantile tedesco Marida Marguerite, catturato nel maggio 2010 e rilasciato sette mesi dopo. L'equipaggio ha raccontato storie dell'orrore: c'è chi è stato denudato e rinchiuso nella cella frigorifera di bordo a meno diciassette gradi, con il ghiaccio infilato a forza nelle mutande; chi è finito nella ghiacciaia appeso a un gancio di macelleria e chi ha subito torture ai genitali. Protagonisti delle trattative per la liberazione degli ostaggi e della nave sono i cosiddetti "interpreti": ovvero i mediatori, figure esterne alle bande, con agganci nei clan tribali somali e referenti all'estero.

Parlano bene l'inglese, rimangono sugli scafi solo nella fase finale della mediazione e spesso trattano per più navi contemporaneamente. Tra i mediatori più importanti c'è Loyan Si'id Barte, "normalmente gentile, diretto e determinato, ma capace di minacciare quando sente che è necessario farlo". Un intermediario del suo livello, tra il gennaio 2009 e l'aprile del 2011, ha incassato almeno mezzo milione di dollari: una cifra che induce gli ispettori a pensare che Barte "abbia partecipato anche ad alcune operazioni come investitore". Come ai tempi dei galeoni, oggi in Somalia c'è chi investe denaro per armare un vascello pirata puntando su una fetta del bottino.

Per le compagnie di navigazione, invece, i costi di un sequestro sono un salasso: l'esempio citato nel report è quello del mercantile tedesco MV Victoria. E' rimasto sotto sequestro solo 73 giorni, ma, tra riscatto, avvocati, spese mediche e telefonate satellitari (ben 1631) la compagnia ha speso 3.219.885 euro. E quest'anno di navi ne sono state catturate già 35: decisamente un bel business.