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GLI USA: "IL PD È MORIBONDO" (English translation not available)

di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi

Pubblicato su l'Espresso, 11 marzo 2011

(http://espresso.repubblica.it/dettaglio/gli-usa-il-pd-e-moribondo/2146706)

Poveri americani. Hanno le idee chiare: "E' interesse degli Stati Uniti l'esistenza di un Pd forte, che isoli gli elementi più populisti e ostinati dell'estrema sinistra". Ma non riescono a trovare nessuno con cui parlarne e assistono alla "caduta a spirale" del Partito democratico. I leader latitano o sono stati bruciati dalle faide: Walter Veltroni è naufragato, il "peso Massimo D'Alema" resta alla finestra, Piero Fassino "preferisce dedicarsi alle organizzazioni internazionali". E il segretario? E' un desaparecido.

Pier Luigi Bersani, stimatissimo come ministro, quando prende la guida del partito scompare dai cablo della diplomazia statunitense. I rapporti dell'ambasciata di Roma, ottenuti da WikiLeaks e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, offrono un ritratto desolante dell'opposizione"moribonda" e "profondamente balcanizzata": dal 2002 al 2010 più volte i resoconti esorcizzano il rischio che "la sinistra scompaia". Ma i capi sembrano tanti Tafazzi, "demotivati e pessimisti", sempre pronti a scambiarsi accuse. Come dice Francesco Rutelli all'ambasciatore, commentando il vantaggio su Berlusconi alla vigilia del voto del 2006: "Mancano sei settimane, se ci impegnamo abbiamo ancora tempo per riuscire a perdere...".

Da Kennedy alle sberle
La parabola di Walter Veltroni è velocissima. Si presenta all'ambasciatore come un emulo di Robert Kennedy e in meno di due anni si ritrova ad essere il "whipping boy": il ragazzo di corte che quando il re sbaglia viene preso a schiaffi, una sorta di giullare che becca sberle per gli errori altrui. Nel 2007 il suo sbarco dal Campidoglio al partito aveva fatto ben sperare gli Usa: "Si presenta come un outsider e un volto nuovo, anche se è da anni al centro della politica... Ci sa fare con i media e dice di non essere mai stato veramente un comunista". L'ex sindaco si vanta di avere ripulito il centro di Roma dalla sporcizia e creato la Festa del cinema "anche se molti pensano non abbia migliorato le infrastrutture della capitale". In quei mesi l'esecutivo di Romano Prodi è già "in agonia" e gli americani temono che possa essere proprio lui a infliggere il colpo di grazia: "Veltroni è un salvagente per la sinistra, che potrebbe affondare Prodi". E Walter infatti "vuole voltare pagina... Pensa che ci saranno elezioni nel 2009 o anche nel 2008". Non intende logorare il suo potenziale di novità perché "Prodi non piace agli italiani". E avverte: "La cosa più difficile sarà tenere i rapporti con il governo. E' debole ma non voglio compromettere la sua stabilità".

L'ora di Veltroni arriva in fretta. Nella campagna del 2008, davanti agli emissari di Bush cerca di mostrarsi positivo. Poche settimane prima delle elezioni che hanno riportato il Cavaliere a Palazzo Chigi, offre assicurazioni all'ambasciatore Spogli sui suoi piani e ostenta fiducia, "anche se riconosce che marginalizzare la sinistra estrema gli costerà il 10 per cento dei voti". Agli Usa, tra l'altro, prospetta una linea più filo-israeliana."E' ferocemente critico con D'Alema, specificando: "Non puoi fare affari con organizzazioni terroristiche come Hamas ed Hezbollah"". A quel punto, Ronald Spogli gli mostra la lettera di congratulazioni di D'Alema a Raul Castro: "Veltroni appare imbarazzato e dice che il passato ideologico di D'Alema si mostra spesso nelle sue dichiarazioni".

Naufragio
Da quel momento in poi Veltroni incassa solo sconfitte. Il rapporto del settembre 2009 si intitola: "Veltroni è ancora il capitano, per ora; ma il Pd va alla deriva": "Dopo il trionfo di Berlusconi è stato incerto nella strategia, ha tentato diverse tattiche senza successo". "Il suo governo ombra - iniziativa inedita in Italia - ha fallito nel catturare l'attenzione dei media e lo ha fatto attaccare da molti notabili del partito". Anche la sua opposizione costruttiva "new style", che evita gli assalti a Silvio cercando di trovare occasioni per cooperare, si rivela un autogol: "Il Pdl ha una larga maggioranza e non ha bisogno di dialogare mentre così ha esposto il fianco sinistro all'Idv di Antonio Di Pietro che gli toglie voti contestando duramente il premier".

Dai vertici arriva un coro di critiche: "Ha fatto poco per unificare il partito, è autoritario, non ascolta le opinioni diverse". Franco Marini è spietato con l'ambasciatore, seppellendo gli slogan veltroniani del "Si può fare": "Walter non è Obama, il Pd non ha un leader". Nessuno però vuole la sua poltrona, su cui pende la prospettiva di un'altra mazzata alle Europee: "Le critiche più forti sono venute dalla periferia, da Chiamparino e Cacciari; i pesi massimi di Roma tacciono perché non sono pronti a prendere il suo posto". Si comincia a discutere del "papa straniero": "Un leader che non venga dai Ds o dalla Margherita oppure un astro nascente". Il segretario replica con stizza: "E' solo il nervosismo di giovani politici senza esperienza di fronte ai normali alti e bassi di un partito". Ma nel febbraio 2009 è proprio l'ex sindaco a sbattere la porta prima delle Europee: il "whipping boy" è stufo di sberle, stanco di fare il capro espiatorio e lascia "il partito in prognosi riservata, senza un chiaro futuro".

Condannati all'ulivo
Le sue dimissioni sembrano confermare i timori sul peccato originario del Pd: "Molti non hanno mai creduto che il partito unico del centrosinistra potesse funzionare. I colonnelli hanno continuato a gestire i loro gruppi in modo autonomo". C'è una sola alternativa: tornare alla formula dell'Ulivo e della coalizione di forze diverse. "Da mesi i nostri contatti nel Pd riferiscono che D'Alema vorrebbe eliminare le tensioni interne permettendo all'ala cattolica di Rutelli di uscire dal partito e formare un'alleanza dall'esterno. Rutelli è infelice e si sente marginalizzato. Un nostro referente nell'Udc ci ha detto che Rutelli valuta continuamente la possibilità di unirsi con Pier Ferdinando Casini". A sinistra le divisioni sono la regola. E' dal 2002 che le varie anime vagano cercando "un punto d'unione magico".

All'epoca la leadership di Rutelli è solo "una finzione elettorale" perché nessuno vuole farsi carico di una simile grana. Tanto che "graziosamente D'Alema gli concede il titolo". Poi torna in scena Romano Prodi, il solo capace di imbrigliare le differenze. Il 20 settembre 2005 l'ambasciatore Spogli mette allo stesso tavolo Prodi, Rutelli, Fassino e D'Alema che - miracolo - riescono a frenare "le loro visioni diverse". Pochi mesi dopo, però, il monumentale programma dell'Ulivo di 281 pagine fa temere il peggio: "E' l'indice delle dispute interne... Troppo vasto e troppo vago". Gli americani lo chiamano "hodgepodge": una scatolone dove si accumulano oggetti alla rinfusa.

Partito in perdita
La nascita del Pd appare subito artificiosa: "Non avrà vita facile. I quadri sono preoccupati, l'opinione pubblica è apatica". "Non c'è nessuna chiarezza sugli aspetti pratici: simbolo, sedi, fondi, giornali". Peggio ancora, "mancano valori che definiscano l'identità della formazione". E citano l'esempio dei Pacs: "I Ds sono per le unioni gay, i cattolici non le accetteranno mai". Insomma, tra parlamentari in fuga e liti "il Pd appare inferiore alla somma delle sue parti". L'unica certezza è che tutti vogliono comandare: "Prodi dovrebbe essere il presidente, ma c'è una lista infinita di pretendenti". In questa rissa continua, resta una sola figura a cui dal 2002 viene riconosciuta la capacità di "suscitare entusiasmo": Massimo D'Alema. "Altamente ambizioso, molto furbo, intelligente, più pungente e dogmatico degli altri leader". Parla"un buon francese ma un povero inglese" e sa di non essere amato a Washington. Per questo nel 2006 sostiene fino all'ultimo che il ministro degli Esteri di Prodi sarà Fassino e dichiara sornione all'ambasciatore: "Il centrosinistra sa che gli Usa tratterebbero più facilmente con lui...". Spogli chiude così il resoconto del loro colloquio: "Si rende conto delle nostre aspettative e cerca di moderarsi. Ma i suoi automatismi ideologici di ex comunista restano a fior di pelle". Gli escono fuori di default. Come sul Medio Oriente dove "è caduto nel solito logoro giudizio critico di Israele". O come quando in tv contesta l'uso delle bombe al fosforo in Iraq: "Massimo ha sbagliato", sbotta Fassino con gli americani.

Bersani dove sai
Nel 2006 il ministro Bersani li stupisce sin dal primo incontro: "Finalmente abbiamo un interlocutore", scrivono entusiasti. Il tema era la tutela dei copyright e scoprono in Bersani una figura "interessata e preparata" che scompagina i rituali della burocrazia italiana. In un secondo summit, il ministro gli parla delle riforme: la liberalizzazione dei taxi e delle farmacie. Ma anche dei piani per creare una nuova cultura manageriale e rivitalizzare la ricerca universitaria. L'ambasciata consiglia a Washington di "stargli sotto". Sembra l'esordio di una grande passione. Invece il segretario Bersani risulta non pervenuto: non c'è un solo cablo in cui si parli di lui. In compenso chiacchierano spesso con Fassino, apprezzato per le sue analisi sul Medio Oriente e sulla Birmania, di cui si occupa come inviato dell'Unione europea. Nel febbraio 2010 Fassino è convinto che il Pd sia "sottostimato dai media e dagli analisti" e che vincerà in due delle regioni contese - Puglia, Campania, Lazio e Piemonte - "con un risultato forte per un partito visto in caduta a spirale". Gli americani lo descrivono come una sorta di pensionato di lusso, che sogna ancora la Farnesina: "In un Pd debole e diviso, che non conta più nulla in politica estera, Fassino ha preferito aumentare il suo impegno negli organismi internazionali".

Per il resto, a sinistra c'è solo il vuoto. Certo, un documento esalta la Puglia di Nichi Vendola e di Michele Emiliano come laboratorio che fonde tradizione e modernità.  Ma la realtà nazionale è quella del tutti contro tutti. E dagli archivi Usa si materializza lo spettro di "un esilio politico autoimposto". Se ne parla già in un file del 2002 sui "girotondi che volevano lavare in pubblico i panni sporchi della sinistra". Con la cronaca del comizio in cui Nanni Moretti annunciava: "Ci vorranno due o tre generazioni per battere Berlusconi". Lo stesso Veltroni dopo il G8 dell'Aquila ammette che serviranno "4 o 5 anni prima che il Pd sia in grado di offrire un'alternativa credibile". E quando nel 2009 gli americani sezionano una piccola realtà, dedicando un dossier alle comunali di Padova, scrivono: "La perdita di uno dei pochissimi comuni importanti nel Nord sarebbe politicamente imbarazzante e deprimente per un partito già moribondo... A causa degli scontri interni il Pd è stato obbligato ad affidarsi alla popolarità personale del candidato Flavio Zanonato". E Zanonato vince, grazie alla azioni concrete - come quella contro il "ghetto degli spacciatori" - rimanendo "un raro punto luminoso per il Pd nel Nord altrimenti dominato dal centrodestra". Chissà, forse da Washington le soluzioni si vedono meglio.