Home page Interviews

COSI' HO VENDUTO LA BOMBA - INTERVIEW WITH ABDUL QADER KHAN (English translation not available)

Esclusivo. Parla Abdul Qader Khan, il padre dell’ atomica pachistana. Racconta i rapporti con l’Iran e la Libia e accusa le autorità di Islamabad: “Ho solo obbedito agli ordini”

Pubblicato su L’espresso, 26 giugno 2008

Ho solo obbedito agli ordini... L’uomo accusato di avere distribuito i segreti della bomba atomica in tutti gli Stati canaglia del pianeta, lo scienziato che ha costruito la prima arma nucleare islamica grazie a una rete clandestina mondiale, sostiene di non avere nulla di cui pentirsi. Dalla casa di Islamabad dove è detenuto agli arresti domiciliari, Ahdul Qader Khan, 76 anni, risponde alle domande de “L’espresso”. Ufficialmente è sepolto vivo in casa, ma non rinuncia a rivendicare la sua opera al servizio del Pakistan: “Quando l’Iran e la Libia vollero iniziare un programma di ar­ricchimento dell’uranio, si rivolsero a noi pachistani. Noi gli abbiamo consigliato di utilizzare gli stessi fornitori, gli stessi esperti e intermediari che usavamo per il nostro piano nucleare. Gli abbiamo consegnato delle informazioni di base e alcune forniture. Ma lo abbiamo fatto sempre seguendo le disposizioni di autorità pachistane di alto livello. Io non ho commesso nulla di cui vergognarmi”.

Khan è il più controverso ingegnere nucleare della storia. Per l’ex capo della Cia, George Tenet, è “pericoloso quanto bin Laden”. Ma per i pachistani è un eroe nazionale che ha trasformato un paese da Terzo mondo in una potenza atomica. E’ stato arrestato nel 2004, dopo avere confessato di avere venduto segreti nucleari agli ayatollah di Teheran, al dittatore della Corea del Nord e alla Libia. Da quattro anni vive recluso nella sua residenza di Islamabad, dove gli ispettori dell’Aiea, l’agenzia per l’energia atomica delle Nazioni Unite, non hanno mai potuto interrogarlo. Ora presenta la sua ricostruzione accusando Europa e Stati Uniti di avere alimentato la proliferazione dell’atomo. “Dovete mettervi in testa che tutta la tecnologia e il know how ottenuto dal Pakistan vengono dall’Occidente. Abbiamo pagato bene e ottenuto tutto quello che volevamo. Cosa può impedire agli altri Paesi di fare lo stesso?”. E’ proprio questo che terrorizza: la facilità con cui Khan ha ingannato controlli e barriere, sorprendendo tutte le autorità internazionali con il suo ordigno. Nessuno pensava che il Pakistan potesse arrivare alla bomba. E il successo dello scienziato di Islamabad si è trasformato in una sorta di pacchetto “chiavi in mano” che tanti potenti senza scrupoli hanno cercato di acquistare. Khan deve tutto all’Europa. Ha studiato nelle migliori università del continente, poi è stato assunto dall'Urenco olandese: un’azienda leader nell’arricchimento dell’uranio, il processo fondamentale per costruire centrali elettriche, ma anche per assemblare l’atomica. Negli anni ha accumulato relazioni preziose, incontrando i responsabili delle fabbriche più sofisticate e conoscendo esperti senza scrupoli. Nasce così “la rete”: una ragnatela di società, stabilimenti e businessman sparsa nei cinque continenti che, con triangolazioni, scambi incrociati e ditte di copertura, ha fatto arrivare in Pakistan i materiali necessari per realizzare l’esplosione choc. Nel 1998 Islamabad mette a se­gno il colpo: il primo test atomico riesce. Washington è furiosa, scatta l’embargo internazionale. Ma Khan non si ferma. Iran, Corea del Nord, Libia lo corteggiano. Lui non si nega e fornisce le indicazioni per moltiplicare gli impianti proibiti. Nel frattempo il mondo cambia. L’11 settembre apre un conflitto tra Islam integralista e Stati Uniti. E a Taranto, in una notte misteriosa, la fortuna di Khan svanisce. E’ il 4 ottobre 2003. Nel porto pugliese viene bloccato il mercantile Bbc China: a bordo ci sono cinque container con apparecchiature speciali. Sono componenti per centrifu­ghe, servono per l’arricchimento dell’uranio e navigano verso Tripoli. Ancora oggi l’operazione resta top secret. Si sa che venne condotta con la collaborazione fra la Cia, l’MI6 britannico e il Sismi di Niccolò Pollari. Da quel momento la posizione dello scienziato è diventata insostenibile per il governo pachistano, che grazie al conflitto in Afghanistan aveva ripreso le relazioni con la Casa Bianca. L’eroe na­zionale finisce agli arresti.

“È una lunga storia, una brutta storia”, commenta: “Tra me e il presidente Musharraf c’era uno scontro personale”. Khan descrive il cambiamento di clima nel suo Paese e il nuovo peso degli Stati Uniti: bastava una telefonata di Richard Armitage, numero due del Dipartimento di Stato, per mettere alle strette Musharraf: “il presidente ha fatto ricadere ogni responsabilità su di me. Per lui io ero una minaccia: in patria la mia popolarità era enorme e c’era anche chi mi voleva presidente al suo posto”. Oggi Khan sostiene che la sua confessione pubblica, quel mea culpa trasmesso dalle tv di tutto il mondo nel 2004 gli fu estorta: “Mi mandarono degli emissari. Dovevo assumermi tutte le colpe, in nome dell’interesse nazionale. In cambio, mi fu promessa la grazia del presidente, la riabilitazione e la libertà di movimento all’interno del Pakistan”. Khan afferma che il famoso discorso-confessione gli fu “scritto dallo Strategic Plans Division” l’organismo che ha il controllo del programma nucleare e che riferisce direttamente al capo dello Stato. Ma la confessione non gli ha restituito la libertà: accusa Musharraf di avere rinnegato le promesse, mantenendolo agli arresti. Non è pentito. E attacca l’intelligence americana. George Tenet, ex direttore della Cia, ha raccontato come l’agenzia era riuscita a infiltrare Khan e il suo gruppo: “Eravamo dentro casa sua, dentro i suoi laboratori, dentro il suo salotto”. Lo scienziato replica: “Se sapevano tutto, perché non sono stati capaci di fare niente per fermare le aziende occidentali che rifornivano l’Iran e la Libia?”. Prosegue: “Quante ne hanno inventate sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq? Tenet e i suoi non sapevano niente del nostro programma nucleare, dei suoi progressi, dei fornitori, finché alcuni traditori non gli fecero arrivare notizie riservate. Tra questi traditori ci sono Musharraf e i suoi amici, che passarono informazioni sul programma pachistano per la loro stessa sopravvivenza”. Anche sulla notte di Taranto Khan ha la sua versione. Punta il dito sempre sui “traditori”, che avrebbero infiltrato l’organizzazione di Bukhary Syed Abu Tahir, uomo d’affari dello Sri Lanka che secondo gli inquirenti aveva un ruolo chiave nella “rete”: “Ma quali superspie! Erano nelle mani degli informatori. Controllavano tutto? E perché non hanno intercettato il carico proveniente dalla Turchia? Non ne sapevano nulla”. Attenzione, però. Questo orgoglio non significa colpevolezza. Khan rifiuta categoricamente qualsiasi responsabilità personale. Ricorda l’apparizione sul mercato degli emissari iraniani, dopo la fine della guerra con l’Iraq, i primi approcci fallirono per la corruzione degli incaricati: si diceva che gli iraniani chiedessero mediazioni ingenti sulle consegne. Pur di arricchirsi e intascare mazzette, i procacciatori andarono a bussare, alla porta di aziende inaffidabili. Insomma, non riuscivano a fare passi avanti. “Nel 1996 ripresero il programma nucleare, ma non ho idea di cosa comprarono e quando si fermarono. Credo che si fermarono nel 2002, quando ebbero in mano il necessario, presumibilmente acquisito dai paesi occidentali, dalla Russia e dalla Cina”. E il contributo di Khan? Solo le informazioni sulle aziende giuste, consegnate obbedendo agli ordini superiori? Tutto qui?

Anche davanti alle contestazioni di esperti indipendenti, come l’ex ispettore Onu David Albright, risponde trincerandosi sulla sua linea: “Tutta la tecnologia e il know how arrivati in Pakistan venivano dall’Occidente. Se i fornitori sono gli stessi, i prodotti sono gli stessi. Dunque non c’è da meravigliarsi se le centrifughe si somigliano tutte, in Iran come in Pakistan, Libia, Cina, Corea del Nord... Ma questo non significa che sono io ad averle mandate in giro. All’inizio noi consegnammo i nostri progetti e piani a dei fornitori occidentali fidati per chiedere opinioni, consigli e suggerimenti. Loro erano gli esperti, noi gli apprendisti”. Khan, dunque, scarica la colpa diretta sulle aziende fornitrici occidentali: sono loro ad aver fatto circolare certe informazioni letali. Non fa nomi, ma li conosce: indirizzi negli Usa e in Europa, forse anche in Italia. Stando all’inchiesta delle autorità malesi sulle centrifughe per la Libia, “le macchine per i laboratori furono fornite dalla Spagna e dall'Italia”. È vero? Khan non si espone e chiama in causa due uomini d’affari: “Peter Griffin prima e Urs Tinners dopo procurarono apparati per la costruzione di centrifughe. È possibile che se le siano procurate in Italia e Spagna. L’Italia costruisce macchine eccellenti per tutti gli scopi”. Poi aggiunge, sempre per creare un filtro sul suo ruolo: “Noi non abbiamo mai fatto affari con aziende italiane. Ci intendevamo di più di prodotti tedeschi, inglesi, sudcoreani e giapponesi. Ma l’Agenzia pachistana per l’energia atomica ha avuto contatti con alcune aziende italiane”. Fin qui si discute di arricchimento dell’uranio, un passaggio fondamentale che non necessariamente serve per creare armi. Diverse e più dettagliare invece le accuse diffuse dal “Washington Post” sulla base delle indagini di Albright: Khan e i suoi referenti avrebbero venduto i progetti per assemblare un ordigno atomico. Una testata di piccole dimensioni, perfetta per essere lanciata da i missili iraniani e coreani. Piani su cd-rom, offerti al miglior compratore. “Questa è una situazione da ‘Comma 22’”, replica citando il romanzo di Joseph Heller: “I miei laboratori non hanno mai modificato, miniaturizzato o fatto alcun cambiamento a un primo progetto del 1983. Dovreste chiedere ad Albright di fare una ricerca sui progettisti e sui fornitori di questo tipo di progetti di armi nucleari”. Una provocazione. Perché Khan non ha nessuna intenzione di collaborare con l’Aiea. Mentre Washington non ha risposto alle richieste dei giudici svizzeri che indagano sui Tinners, gli uomini d’affari elvetici nei cui computer sarebbero stari trovati i documenti citati dal “Washington Post”. Oggi quei dati sono stati cancellati. La Cia non si è limitata a chiedere la semplice distruzione di quei documenti, peraltro confermata dalle autorità svizzere qualche giorno fa, ma ne avrebbero preteso la polverizzazione. “L’hanno fatto per nascondere che molta di quella tecnologia proveniva dagli Usa e dai suoi alleati. I fornitori occidentali la vendevano a chiunque fosse disposto a pagarla”, attacca l’ingegnere nucleare: “Poi è stato facile far passare il dottor Khan come una canaglia e farne il capro espiatorio”.

Lo scienziato conclude con un inno al nazionalismo. Come vorrebbe essere ricordato dalla Storia? “Non me ne frega niente di ciò che l’Occidente pensa di me. Sono un pachistano dal patriottismo di ferro e sono orgoglioso di avere aiutato il mio Paese ad acquisire una capacità nucleare, che ne ha garantito la sovranità, l’esistenza e la pace”. Non rinuncia all’ultima stoccata a Musharraf: “Il fatto che abbiamo fallito nel cogliere l’opportunità di progredire economicamente e dal punto di vista industriale è dovuto alla dittatura degli ultimi nove anni. Leader corrotti e inefficienti hanno guidato questa nazione, che è letteralmente finita in malora”.