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AIDS. TEHERAN: IL MISTERO DEGLI SCIENZIATI SCOMPARSI (English translation not available)

Di Stefania Maurizi

Pubblicato su Il Venerdì di Repubblica, 28 novembre 2008

Li aspettavano in America, dove erano stati più volte per studiare e partecipare a incontri di grande prestigio internazionale. Stavolta, però, non sono arrivati. Scomparsi. Il mondo aveva conosciuto i fratelli Kamiar e Arash Alaei grazie alla Bbc, che nel 2004 aveva raccontato un lato poco noto del Paese degli ayatollah: strade imbrattate da aghi, prostitute, tossicodipendenti e omosessuali infettati dall’Aids. E l’impegno di due fratelli, entrambi medici entrambi brillanti, in lotta contro il virus. A giugno, però, sono spariti. Per qualche giorno, di loro non si è saputo niente. Poi, sono riapparsi: nella peggiore sezione della peggiore prigione di Teheran, la 209 del carcere di Evin, una divisione sotto il controllo dei servizi segreti iraniani. Perché sono finiti lì? Kamiar e Arash Alaei non sono due spie o due pericolosi complottardi. Sono solo due medici. «È una tragedia che i nostri ricercatori finiscano dietro le sbarre» dice al Venerdì il Premio Nobel Shirin Ebadi. Ma è tutto quello che la grande attivista iraniana per i diritti umani sa dirci degli Alaei. «Sono in isolamento, soggetti a torture e a un’enorme pressione per estorcere loro false confessioni» scriveva a settembre il sito, solitamente ben informato, Iran Human Rights Voice (www.ihrv.org). Poi, il silenzio. A lanciare l’allarme sull’arresto degli Alaei, a giugno, era stata un’associazione, con sede a Boston, che ha al suo attivo un Nobel per la Pace, Physicians for Human Rights (Phr), Medici per i diritti umani. «Phr è impegnata da sempre nella difesa dei colleghi a rischio» ci spiega la vicedirettrice, Susannah Sirkin, raccontando come, da vent’anni a questa parte, l’organizzazione abbia spesso lavorato su casi molto delicati, tipo quello del presidente dei medici cileni, incarcerato dal dittatore Pinochet per essersi rifiutato di avallare le torture del regime. «Gli Alaei sono giovani» dice la Sirkin, «ma sono impegnati da oltre dieci anni nella lotta all’Aids, sono conosciuti a livello internazionale e in Iran avevano messo in piedi un programma illuminato, per certi versi anche più avanzato di quello degli Stati Uniti».

In teoria la rigida morale islamica dovrebbe mettere il Paese al riparo da «vizi» come la prostituzione, l’omosessualità e la droga. In pratica, lo scandalo dell’aprile scorso, che ha coinvolto il grande moralizzatore, il generale Reza Zarei, capo della polizia di Teheran, sorpreso in un bordello mentre se la spassava con sei prostitute, lascia immaginare una realtà diversa. La piaga più preoccupante è quella della tossicodipendenza: con la droga che scorre a fiumi attraverso il confine con l’Afghanistan e nonostante la legge bolli come immorali anche i piaceri più innocenti, si ipotizza che tre milioni di iraniani facciano uso di droghe pesanti e ci siano almeno centomila casi di Aids, stando proprio alle ultime stime degli Alaei. È grazie a loro se l’Iran ha il programma di lotta all’Hiv più efficace del Medio Oriente, un lavoro elevato a modello dall’Organizzazione mondiale della sanità. Gli Alaei hanno iniziato dalle prigioni a mettere in piedi un programma di riduzione del danno, di educazione e informazione. In un Paese in cui sesso e droga sono tabù, è stata un’impresa titanica parlare di comportamenti a rischio e fare accettare l’idea di distribuire siringhe e preservativi per frenare il contagio, ma loro non hanno mai sfidato le autorità religiose. Un disegno troppo esplicito su un opuscolo informativo poteva dare scandalo? Cancellato. L’espressione sex workers era da evitare? Si sostituiva con «donne a rischio». Presentando il proprio lavoro come compatibile con i valori dell’Islam, gli Alaei sono così riusciti a fare accettare la loro lotta all’Aids agli ayatollah di Teheran, esportandola fino in Tajikistan e in Afghanistan. Racconta una fonte che pretende l’anonimato: «Niente lasciava pensare che potessero avere problemi con il regime, anche perché è grazie a loro se l’Iran ha ottenuto soldi dalla comunità internazionale per la lotta all’Aids». Ma allora perché sono da mesi nella truce prigione di Evin? Secondo l’agenzia degli studenti iraniani, Isna, durante i loro viaggi all’estero gli Alaei avrebbero cercato di creare una rete di contatti per innescare una sorta di rivoluzione di velluto, mobilitando la società civile al fine di rovesciare il regime. Un’ipotesi, però, infondata per chi conosce i due fratelli. «Nel loro lavoro non c’è niente di politico, è un arresto illegittimo» dice Susannah Sirkin di Phr.Finora hanno protestato associazioni, colleghi, la presidenza dell’Ue, grandi università e grandi giornali. «Vergogna» ha scritto il Washington Post. Metterli sotto i riflettori basterà a salvarli?