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A BAGHDAD 500 TONNELLATE DI URANIO (English translation not available)

Pubblicato sul settimanale DIARIO, 23 dicembre 2005

Ma che senso avrebbe avuto comprare yellowcake dal Niger, nel 2000? A Bagdad ne avevamo 500 tonnellate fino al giorno prima della guerra! E per la bomba ne bastano 10. Ne avevamo comprate 200 tonnellate dal Niger nell’ ’80 e nell’ 81: allora si poteva acquistare liberamente”. Non ve l’aveva portato via l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), dopo le ispezioni del ’91? “No, era a Bagdad e c’è ancora! L’IAEA non l’aveva rimosso, perché tanto a che serve? Dallo yellowcake all’uranio altamente arricchito - il materiale per costruire l’atomica - c’è un cammino lunghissimo, ammesso poi che si abbiano gli impianti per lavorarlo, impianti enormi che non avevamo: avevamo distrutto tutto nel ’91!”

Alla reception non risulta alcun cliente registrato come ‘Jafar Dhia Jafar’, eppure l’appuntamento è qui: nel Lounge di un albergo di Vienna, atmosfera internazionale e servizio impeccabile. L’uomo che, almeno fino a due anni fa, la CIA e l’MI6 avrebbero voluto torchiare, l’‘Oppenheimer di Saddam’ che ispirava alla Rice immagini apocalittiche di pistole fumanti a forma di fungo atomico, ora è seduto qui. Aria misteriosa e inglese eccellente, Jafar sa tutto. Ha diretto il programma nucleare di Saddam fin dagli anni ’70 ed è stato consigliere personale di Saddam dal ’92 fino alla caduta del regime. “Ma non è in carcere o ricercato?”- chiede sbigottito un collega. No, oggi Jafar è un uomo d’affari di successo, che viaggia liberamente per il mondo e il suo gruppo di imprese con sede a Dubai, Emirati Arabi Uniti, partecipa alla spartizione della torta della ricostruzione dell’Iraq.

Vite parallele. “A 14 anni i miei mi mandarono in una boarding school in Inghilterra”, racconta, “A 17 mi sono iscritto alla facoltà di fisica dell’Università di Birmingham, probabilmente l’unica che accettava un iscritto così giovane”. Jafar ha un’intelligenza pronta, modi pacati e disinvolti. A soli 23 anni aveva già un dottorato in fisica nucleare e la fama di fisico di valore. Tornò in Iraq nel ’67 e in quegli anni erano due i cervelli del paese: Jafar e Hussain Al-Shahristani, l’attuale vicepresidente del parlamento iracheno, eletto nelle prime elezioni del dopo Saddam. “Shahristani è molto religioso, io no, per cui quando esco mi capita di bere, mentre lui non fa queste cose”, ci dice con uno sorriso furbo. Amici in laboratorio, ma con poche cose in comune, i due misero in piedi il programma nucleare dell’Iraq. “Firmai io il contratto tecnico con i francesi per il reattore Osirak, nel ’76”, ricorda, “450 milioni di dollari di allora!”. Nel ’79, però, Saddam andò al potere e Shahristani fu arrestato immediatamente. Jafar fu leale con l’amico: scrisse immediatamente a Saddam una lettera, che non ebbe seguito, ne scrisse un’altra e a quel punto anche lui fu arrestato. Era il gennaio del 1980: le strade di Jafar e di Shahristani si divisero per sempre e i due si sarebbero rivisti solo dopo 24 anni. Shahristani fu torturato per 22 giorni e 22 notti e lasciato completamente paralizzato. Dopo pochi mesi di prigione, Barzan Al Tikriti, il capo del Mukhabarat - il servizio segreto iracheno per l’estero - gli fece visita e gli disse che l’Iraq aveva bisogno dell’atomica per ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Se Shahristani avesse collaborato, sarebbe stato rimesso in sesto dai migliori medici, avrebbe avuto un appartamento nel palazzo presidenziale, un conto svizzero a prelievo illimitato e tutti gli agi che un uomo può desiderare, ma Shahristani disse no. Gli fu miracolosamente risparmiata la vita, ma finì ad Abu Ghraib: 10 anni di isolamento, non una parola, un libro, un foglio di carta o una penna. La vita di Jafar, invece, fu più piacevole.

Lei come giudicava Saddam?, gli chiediamo. “In generale molto bene, ma sapevo che era molto aggressivo verso ogni oppositore: tolleranza zero”. Jafar non fu torturato, nessuno lo interrogò o gli dette spiegazioni, passò 18 mesi in una casa confortevole, guardato a vista, poi, nel settembre dell’’81, tre mesi dopo il bombardamento del reattore Osirak da parte di Israele, Al Tikriti lo portò dal Raìs. “Saddam voleva che mettessi in piedi un programma nucleare per costruire la bomba”, ricorda, “‘Perché Israele deve avere la bomba e noi no?’, mi disse Saddam. Era la prima volta che lo sentivo parlare di nucleare per uso militare”. E lei gli avrebbe messo in mano l’atomica? “Lavoravo per l’Iraq, non per Saddam”, risponde un pò irritato, “ e non ero preoccupato: il programma avrebbe richiesto almeno 10 anni e forse Saddam sarebbe durato un anno o due”. Le razionalizzazioni degli Stranamore di tutto il mondo sono sempre le stesse: dovere patriottico, guerra fredda o calda, o addirittura ‘curiosità scientifica’. Anche Jafar non aggiunge nulla di nuovo: voleva fare qualcosa per l’Iraq e per il mondo arabo, “per proteggerlo da Israele, che sapevamo aveva le armi nucleari” e poi l’Iraq doveva difendersi, perché allora era in guerra con l’Iran. Non un cenno alla vita da nababbo che Al Tikriti aveva promesso a Shahristani. Quanto eravate lontani dal costruire la bomba?, gli chiediamo. “Nel ’90 ci mancavano almeno 2 o 3 anni per finire gli impianti di produzione del materiale per costruirla, ma a metà dell’88 avevamo già cominciato a progettarla. E tutto il programma era sotto di me”. Racconta tutto con orgoglio e naturalezza: sfide scientifiche, intrighi internazionali per ottenere tecnologia nucleare da aziende che la vendevano clandestinamente, tanti soldi e tanti uomini: “nell’87 demmo 1 milione di dollari ai tre tecnici tedeschi che ci procurarono sotto banco i progetti delle centrifughe per arricchire l’uranio”, “10.000 persone lavoravano al programma, nel ‘90”. “Poi, però, nell’agosto del ’90, Saddam commise l’idiozia di invadere il Kuwait”, sorride rassegnato a raccontare l’inizio della fine.

Prendi il reattore e scappa. “Con l’invasione del Kuwait ci fu l’embargo, che danneggiò tantissimo il nostro programma nucleare, gli impianti furono bombardati durante l’operazione Desert Storm, seguì la risoluzione 687 dell’ONU e il programma finì lì: non fu mai più ripreso”. Quindi tutto si chiuse con la prima guerra del Golfo e con le prime ispezioni dell’IAEA, quelle del ‘91? “Sì”, ripete sicuro, “e distruggemmo tutto, allora”. Il problema - insistiamo - è che non esiste un solo osservatore internazionale che abbia mai assistito alla distruzione di cui lei parla. Perché non distruggeste tutto davanti agli ispettori? “Perché non avevamo raccontato all’IAEA l’intera storia”, risponde, tirando in ballo il genero di Saddam, Hussain Kamel. “Era giovane, aveva un grande Ego”, ricorda Jafar, poi ricostruisce tutto il gioco del gatto e del topo che l’Iraq portò avanti con l’IAEA. Quando scoccò l’ora fatale delle ispezioni del ’91, Kamel decise, d’accordo con Saddam, che l’Iraq avrebbe negato tutto. “Una decisione assurda”, spiega Jafar, “io lo dissi subito: gli impianti erano enormi”. Nascondete tutto e consegnate alle guardie speciali repubblicane tutto quello che non può essere nascosto, insistette Kamel. “Consegnammo 500 camion enormi, pieni di attrezzature, ma anche le guardie non sapevano dove metterli”. Il piano di Kamel fallì miseramente e nel luglio del ’91 la patata bollente passò a Tareq Aziz. Siamo forse arrivati a costruire la bomba? - ragionò Aziz - No. E allora perché dichiarare il programma? Una cosa è l’arricchimento dell’uranio - argomentò Aziz - un’altra è la progettazione dell’atomica, che è una violazione gravissima del Trattato di non proliferazione. Aziz ordinò di raccontare tutto dell’arricchimento, ma di non fiatare della bomba, di distruggere tutto quello che aveva a che fare con essa, bruciare i documenti e non dire una sola parola delle aziende straniere che avevano aiutato l’Iraq a mettere in piedi il programma per costruirla. “E così facemmo”, dice Jafar, “non raccontammo l’intera storia, ma del resto la risoluzione 687 non ce lo richiedeva: ci ordinava di distruggere tutto e noi distruggemmo tutto”. Tutto ciò nel ’91, poi però nel ’95 Hussain Kamel defezionò in Giordania: “a quel punto raccontammo tutto all’IAEA, prima che lo facesse Kamel”. Fecero anche i nomi delle aziende e Jafar dapprima ci offre una lista di quelle italiane, poi però ci ripensa: erano poche, non sapevano, ci hanno fornito tecnologie innocue... Ripete mille volte che la ragione per cui nel 2003 gli ispettori dell’IAEA non trovarono nulla è semplicemente perché l’Iraq non aveva più nulla, ma “loro non furono onesti, non dichiararono mai che avevamo completato il disarmo, erano sotto la pressione degli USA e dell’Inghilterra”. Inutile insistere che Hans Blix, che guidò le ispezioni del 2003, è considerato uno dalla schiena dritta. “Sono molto sorpreso del Nobel per la Pace 2005 all’IAEA”, ci liquida, “so che il capo dell’IAEA, ElBaradei, non vuole parlare dell’Iraq, si sente in colpa: sono morti così tanti innocenti”. Jafar attribuisce all’IAEA responsabilità pesantissime, ma delle proprie responsabilità che ne pensa?

Oggi l’Oppenheimer di Saddam vive a Dubai. “E’ una lunga storia...”, risponde alla nostra richiesta di sapere come ci è finito. Racconta di essere scappato dall’Iraq il giorno prima che finisse la guerra per sfuggire all’arresto. E perché non l’arrestano?, lo incalziamo. “Perché sono scappato”, ribatte impertinente, “per arrestarmi in un altro paese, dovrebbero provare che ho fatto qualcosa di sbagliato, ma che ho fatto di sbagliato?” Comunque, dopo la fuga l’intelligence americana l’ha interrogato a fondo. “Ho detto che non avevamo più nulla dal ’91”. E gli americani? “Gli americani lo sapevano benissimo, altrimenti non ci avrebbero invaso”, ridacchia, “perché secondo lei non invadono la Corea del Nord?”