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CHIRURGO DI GUERRA (English translation not available)

Pubblicato sul settimanale DIARIO, 30 luglio 2004
 
“ ‘Figlio di puttana! Bastardo! Non voglio essere curato dai banditi!’, mi urlava in faccia il kontraktnik, mentre l’infermiera gli iniettava un analgesico e un combattente ceceno, che stava nel corridoio, mi strillava: ‘Lascialo morire! Lascialo morire!’. E per un momento sono stato tentato di farlo: il mondo sarebbe stato migliore senza un mostro del genere”. Questo è uno dei passaggi topici di un libro fresco di stampa in America e dal titolo “The Oath”, ovvero “Il Giuramento”. E’ stato scritto da Khassan Baiev, un chirurgo di guerra che ha creato un’isola di umanità nell’oceano di barbarie del conflitto russo-ceceno. Sarebbe facile raccontare la sua storia come quella di un eroe, e certamente Khassan Baiev lo è, ma è anche un uomo spezzato, che per mantenere la testa attaccata al collo ha dovuto piantare tutto. Braccato e ricercato, Baiev ha lasciato la Cecenia grazie all’aiuto di organizzazioni internazionali per i diritti umani come Human Rights Watch e Physicians for Human Rights.
 
Ha 41 anni, il fisico da atleta e due occhi vivi. “Noi ceceni lottiamo per l’indipendenza da 400 anni”, racconta con fierezza, “ e quando nel ’91 l’Unione Sovietica colò a picco, i nostri leader dichiararono la sovranità del popolo ceceno, ma i russi erano assolutamente contrari alla nostra indipendenza per tutta una serie di ragioni, tra cui la posizione strategica a nord del Caucaso e le risorse naturali, come il petrolio. Così nel ’94 scoppiò la prima guerra tra noi ed i russi, nel ’99 la seconda, che continua ancora oggi e si è rivelata molto più crudele della prima. Le forze russe hanno impiegato molti più kontraktniki”. Vestiti con T-shirt nere senza maniche, i kontraktniki sono mercenari che hanno firmato un contratto per combattere al servizio delle forze russe. Nel suo libro, Baiev fa una distinzione tra loro e i soldati regolari, raccontando per esempio che gli anziani dei villaggi ceceni consigliavano alla popolazione di sfamare i giovani soldati russi, ma non i kontraktniki. “Anche se il comportamento dei soldati è cambiato nel corso del tempo, tuttavia non c’è dubbio che si comportavano in modo diverso dai kontraktniki”, ci conferma nell’intervista, “la maggior parte dei kontraktniki erano criminali e si distinguevano per il loro comportamento, soprattutto per la loro crudeltà. Venivano in Cecenia per saccheggiare, violentare, ammazzare di botte, torturare e fare esecuzioni sommarie di fratelli e padri. Arrestavano giovani uomini completamente innocenti, li mandavano nei campi di filtraggio e si davano ad attività come i rapimenti e la vendita di corpi di soldati morti o mezzi morti ai rispettivi parenti”. Quando gli chiediamo dei ‘campi di filtraggio’, una nuova galleria degli orrori si apre: “Sono prigioni”, racconta, “Il loro scopo originale era quello di ‘filtrare’ la popolazione, ovvero separare i combattenti e i ribelli dai civili, ma sono diventati dei centri di tortura in cui sono stati ammazzati migliaia di ceceni. C’è tutta una rete di campi di filtraggio in Cecenia ed uno più famigerati è quello di Chernokozovo. Mio nipote Ali è stato imprigionato e torturato in quel campo per 36 giorni. Alla fine, pagando un riscatto di 10.000 dollari, siamo riusciti a tirarlo fuori mezzo morto”. E’ difficile descrivere la pena con cui Baiev parla di questa guerra, che ufficialmente non esiste: dal marzo del 2000, infatti, le truppe russe sono riuscite ad ottenere il controllo di tutto il territorio ceceno e da quel momento il Cremlino ha descritto la situazione della regione come in via  di ‘normalizzazione’, ma a tutt’oggi le forze russe non sono riuscite a fermare la guerriglia. Non esistono dati certi sul numero di soldati russi attualmente presenti in Cecenia, ma secondo le stime più recenti si aggirano intorno alle 80.000 unità. “Attualmente circa la metà delle forze russe in Cecenia è costituita da kontraktniki”, ci spiega Baiev, mentre continua a raccontare di crimini che riempiono da anni le pagine dei rapporti ufficiali delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Alle atrocità delle forze russe, si vanno ad aggiungere, secondo un recentissimo rapporto di Amnesty International, quelle attribuibili all’armata di Ramzan Kadyrov, il figlio del presidente ceceno Akhmad Kadyrov, considerato un fantoccio di Mosca e fatto saltare in aria nel maggio scorso, forse dagli uomini di Shamil Bassaev, il comandante della guerriglia cecena in cima alla lista dei ricercati dal Cremlino. In realtà, va detto che anche i ribelli ceceni violano le leggi internazionali, prendendo di mira in particolare i politici e i funzionari accusati di essere fantocci di Mosca o di collaborare col governo russo, ma non c’è dubbio che, da quanto emerge dai rapporti ufficiali delle organizzazioni internazionali, complessivamente sono le forze russe, presenti a decine di migliaia sul territorio ceceno, che si rendono responsabili di violazioni dei diritti umani gravissime, sistematiche e che rimangono completamente impunite. E finché i ceceni continueranno a subire queste atrocità, non potranno certo guardare al governo russo con fiducia, né potranno tornare alla ‘normalità’, accettando di convivere, come se niente fosse, con chi ha massacrato e massacra, tortura e violenta i loro cari e gira indisturbato.
 
Ma la comunità internazionale che fa? “Ha imboccato la via dell’autoillusione, scegliendo di credere, come sostiene la Russia, che la situazione della Cecenia è in via di normalizzazione”, così scrive Human Rights Watch nel rapporto del 2004 sulla Cecenia, dove denuncia senza mezzi termini che, poiché la Russia è uno dei membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a tutt’oggi è riuscita a impedire una seria indagine da parte dell’ONU dei crimini commessi dalle sue truppe in Cecenia. Né governi o istituzioni come la Banca Mondiale hanno mai pensato di vincolare gli aiuti economici alla Russia al rispetto dei diritti umani in Cecenia. La situazione è anche peggiorata (se possibile...) dopo l’11 settembre: dopo l’attentato alle Torri Gemelle, infatti, Putin ha presentato la lotta alla guerriglia cecena come il contributo russo alla campagna internazionale contro il terrorismo, insistendo su presunti collegamenti tra i ribelli e Al Qaeda. A quel punto, il problema Cecenia è scomparso dall’agenda internazionale. Una delle ragioni che hanno spinto Khassan Baiev a scrivere il suo libro è proprio il desiderio di far conoscere la tragedia del suo popolo, attraverso la sua storia di chirurgo sotto le bombe.
 
Il giuramento “Sì, per un momento sono stato tentato di lasciar morire quel kontraktnik”, comincia a raccontare Baiev, quando gli chiediamo della sua esperienza di chirurgo di guerra in Cecenia, “ma poi ho pensato al Giuramento di Ippocrate, che ho fatto quando mi sono laureato in medicina e che ho preso sul serio. Guardavo alle persone che soffrivano come dei pazienti e un dottore deve aiutare chiunque abbia bisogno. Ma oltre a ciò sono un credente, se avessi iniziato io a decidere chi doveva vivere e chi doveva morire, dove saremmo andati a finire? Mi sono detto: “Allah lo punirà”.
La guerra è l’arte di uccidere, la medicina è l’arte di salvare vite. E in guerra i medici sono i più esposti a questa schizofrenia: possono stare da una parte delle barricate piuttosto che dall’altra, ma il loro expertise punta a salvare vite, non importa quali vite. La storia di Khassan Baiev è da incubo: per 6 anni ha lavorato sotto i bombardamenti, una notte vennero portati nel suo ospedale 300 feriti, Baiev era l’unico chirurgo. Uscì nel corridoio dell’ospedale e vide cos’erano 300 persone massacrate e accasciate sul pavimento imbrattato di sangue, che schizzava sui calzoni e sulle scarpe. Operò per 48 ore di seguito, eseguendo 67 amputazioni e 7 interventi di neurochirurgia, oltre a rimuovere le schegge dagli altri feriti. Quando molti degli ospedali ceceni furono distrutti, andò di villaggio in villagio per curare i feriti nelle loro case, operando su tavoli da cucina, letti, pavimenti e usando attrezzi da falegname e urina, in mancanza di strumenti chirurgici e soluzione salina. La notte veniva spesso prelevato da commandi di uomini, non meglio identificati, che bussavano alla porta di casa sua e lo portavano sulle montagne: Baiev non sapeva se veniva portato via per essere rapito, ammazzato o semplicemente perché doveva curare qualche famoso comandante ceceno, braccato dalle forze russe. Curava tutti indistintamente: civili, ribelli, soldati russi e ceceni, kontraktniki. Le leggi internazionali prevedono il rispetto della neutralità medica. “Sono un dottore. Per le leggi internazionali ho il diritto di curare i feriti”, rispose una volta ai kontraktniki che l’avevano fermato ad un checkpoint e l’avevano riconosciuto: era lui il famoso medico che curava i ribelli. “Chi se ne frega della tua legge internazionale? Ora te la facciamo vedere noi la legge internazionale”, gli urlarono i kontraktniki. Lo arrestarono e lo portarono in un buco lurido: sulle pareti c’erano buchi di proiettile, macchie di sangue e ciuffi di capelli. L’avrebbero torturato o ammazzato senza tante cerimonie? Sfuggì per miracolo all’esecuzione sommaria, perché un ufficiale russo intervenne. Ma poi entrò anche nel mirino dei guerriglieri ceceni più estremisti. “Merita di morire, cura i nostri nemici”, sentenziò uno di loro. Sfuggì ancora una volta alla morte. Ma alla fine i demoni della guerra presero il sopravvento. La sua situazione psicologica era catastrofica: essendo un medico, capì di soffrire della sindrome da stress post traumatico. Anni di atrocità avevano fiaccato anche lui, che pure era forte come una sequoia. Ma, soprattutto, la sua vita era in pericolo: era un testimone oculare di molte delle efferatezze delle forze russe e aveva salvato la vita al famosissimo comandante Shamil Bassaev, ritenuto responsabile del sequestro del teatro di Mosca con 800 ostaggi, dell’assassinio del presidente Kadyrov e dell’attacco all’Inguscezia, del giugno scorso. Nell’aprile del 2000, Khassan Baiev è scappato dalla Cecenia, grazie a Physicians for Human Rights e a Human Rights Watch. Oggi, vive nei dintorni di Boston.

Cosa vuol dire essere un rifugiato? Gli chiediamo. L’America della lotta al terrorismo ha concesso asilo a Baiev, a sua moglie e ai suoi figli, e al nipote Ali, sfuggito a Chernokozovo. “La cosa che apprezzo di più dell’America è la libertà di cui godo”, racconta, “nessuno mi ha mai chiesto di che nazionalità o religione fossi, nessuno ha mai voluto vedere il mio passaporto o il permesso di soggiorno. Purtroppo, in Russia, la polizia ti ferma ogni 100 metri per controllare i documenti”. Indubbiamente, le organizzazioni che lo hanno aiutato a scappare, l’hanno aiutato anche a trovare un ambiente protettivo, perché non tutti i rifugiati hanno un’esperienza così rosea: Physicians for Human Rights e tanti altri gruppi denunciano da anni casi di disgraziati che, dopo aver subito torture o persecuzioni, scappano in America o in Europa alla ricerca di asilo e, anziché trovare protezione, vengono imprigionati nei centri di detenzione per clandestini, senza un’adeguata assistenza medica e legale. Comunque, la vita di Baiev è tutt’altro che facile. “Durante i primi anni, i rifugiati sono scioccati per la separazione forzata dalle persone che amano e dalla loro cultura”, ammette, “bisogna apprendere una nuova mentalità e una nuova psicologia. E se si arriva in America senza conoscere la lingua _ come ho fatto io_ ci si sente come un bambino che deve imparare a camminare”. Mentre racconta, ci risuonano in testa i passaggi del suo libro in cui parla delle tradizioni antichissime del suo popolo, della vita dei ceceni tra le montagne e delle scene di vita familiare in Cecenia, come quella in cui insegna ai figli ad affondare la testa nel cuscino per non vedere le scene di sesso della TV russa. E’ difficile immaginare come Khassan Baiev possa vivere nel Massachusetts, lontano dal suo ospedale, dagli anziani del villaggio, dai genitori vecchissimi e dalla famiglia-clan. Il libro che ha scritto, dopo l’arrivo in America, è pieno di questi fantasmi: ospedali e case distrutte, amici morti in guerra, parenti e pazienti sterminati dalle forze russe, infermiere e aiutanti dispersi nei campi profughi. Guardare indietro non è uno scherzo per Khassan Baiev, così chiudiamo l’intervista cercando di capire se almeno può guardare avanti. Continuerà a fare il chirurgo in America? Gli chiediamo, “Questa è la domanda più dolorosa per me”, risponde secco, “Non posso praticare la professione, perché mi sono formato in Russia e qui in America la mia formazione non è riconosciuta. Ma il mio obiettivo è tornare in Cecenia, aiutare la mia gente e tornare in sala operatoria. Non posso immaginare la mia vita senza una sala operatoria”.